LOBODILATTICE

//Focus on artist//Tra arte contemporanea e scienze naturali, le opere di Monica Casalino in mostra a Roma dal 13 aprile. L’intervista all’artista pugliese

La compenetrazione tra arte contemporanea e sfera naturalistica, che apre riflessioni sulla questione ecologica, costituisce una delle tematiche fondamentali della poetica di Monica Casalino, sviluppate nel periodo più recente. L’artista pugliese, che ha approfondito gli studi sulla botanica, in particolare riguardo le branche della fisiologia e della fitopatologia, ma anche del sistema agroalimentare, presenta a Roma, alla fiera enogastronomica “Bonum”, in programma il 13 e il 14 aprile, le sue opere appartenenti all’articolato progetto di ricerca “Ossi Mori”, espressione a sua volta di “gliforeal”, dimensione definita dall’artista come “uno spazio-tempo in mutamento, la trasposizione di un movimento generatore, di un metodo”. Alla fiera di Roma Monica Casalino presenterà i lavori compresi nel peculiare progetto “Sete di vino”, così come l’opera intitolata “Del punto”. Dopo la mostra “La pelle al limen” portata a Bari e a Bisceglie nel 2016, in cui l’artista pugliese esplorava i percorsi esistenziali individuali e collettivi attraverso i linguaggi della scultura e dell’installazione, avvalendosi della tecnologia, Monica Casalino amplia la sua ricerca, contrassegnata da una visione organica della realtà fenomenica, toccando inediti orizzonti creativi attraverso l’approfondimento del legame tra arte contemporanea e scienze naturali, dunque tra arte contemporanea ed ecologia. Per la rubrica “Focus on artist” Lobodilattice ha intervistando Monica Casalino, approfondendo l’attuale fase del suo percorso artistico.

Come nasce il progetto pittorico “Sete di vino”, in cui utilizzi il vino e gli elementi che lo compongono per dipingere? Quali sono le tecniche che hai appreso da questa pratica?

“Sete di vino” è un progetto che nasce nel 2003. Ero in visita in una cantina per un progetto di design sul calice, in quel periodo lavoravo moltissimo con il vetro, materiale che adoro e per il quale ho in serbo un progetto-mostra al termine della ristrutturazione del mio casale a Trani. In quell’occasione, nel corso della degustazione di vini, ad uno degli ospiti sfuggì il calice e il vino si versò inesorabilmente sulla mia camicia di seta, “macchiandola” ...splendidamente. L’ospite era mortificato e, mentre si scusava, io, entusiasta, lo ringraziavo. Sai bene quanto importante sia il concetto di incidente (incidere) nella mia ricerca. Sono un’artista analitica e concettuale, quindi l’unico accesso che il caso ha per entrare nella fase progettuale/fattiva è l’imprevisto e l’entropia (il logo ha un’apertura alla gola, è quell’accesso al caos che poi è nutrimento). Per via di un imprevisto o incidente nacquero anche le “materiografie”, i calchi in apnea posta all’ingresso della mostra personale “La pelle al limen” del 2016 a Bari. Una settimana prima dell’evento ci fu un sabotaggio, anzi un vero e proprio furto dei pezzi che dovevano rendere interattiva una delle opere principali. Il livello di panico e stress di quel momento non poteva essere escluso: volevo e dovevo a tutti i costi fotografare quel momento, quella tensione e senso di oppressione, e non potevo certamente costruirlo o riprodurlo. Sarebbe stata rappresentazione, un falso storico del presente. L’assenza del respiro e il senso di oppressione tipici del panico potevano essere rese solo da un soffocamento reale, una sensazione con cui avevo un precedente, e che fu richiamato dall’accaduto, così mi chiusi in studio e realizzai dei calchi immergendomi nella materia impressionabile senza respirare, vivendo pienamente quel senso di angoscia, impresso nella materia (Curioso quanto questo sia poi stato attuale dopo qualche anno durante il covid). In “Quarzo 3+5”, opera in vetro, fu la rottura dell’oggetto a trasformarlo in opera. Per le sete a scatenare tutto, un versamento. L’impronta di vino su camicia di seta aveva l’incredibile forma di una sorta di calice alato o di una fenice. Nacque così il progetto. Tornando a casa fu urgente approfondire il potenziale del pigmento e studiare la struttura della sostanza, oltreché il concetto che accompagnava l’esperienza di condivisione. Naturalmente ci si scontra incontra con tecnè, infatti le prime otto sete sperimentali, sono il manifesto del progetto “Sete di vino”, una prima sequenza che allude proprio al processo creativo, assimilabile al processo di vinificazione dal mosto all’assunzione, in cui le sete, immerse e modellate nel vino, sono dipinte con tecnica mista, tannini, pigmenti e...In seguito ho vissuto quello che per me è l’aspetto più goloso: creare la tecnica, per dipingere solo con il vino in purezza e, parallelamente, è cresciuto anche l’interesse per questo alimento incredibile. La creazione di una tecnica è un elemento focale nella mia poetica, in cui la materia è transito, luogo. Questo anche quando l’opera è concettuale o immateriale. In “Sete di vino”, come nell’opera di polvere, il vero soggetto è la tecnica perché questa presuppone il mutamento. “Sete di vino” da allora nel tempo si è amplificato arricchendosi di dettagli, diventando specifico di un territorio di un vitigno, impronta del luogo, congiungendosi in quest’ottica e naturalmente con il progetto “Ossi mori”. Un processo pittorico organico che ha nutrito anche la mia passione per la Vitis vinifera. Già in quel periodo avevo imbastito, anche se specificatamente, uliveto e ciliegeto, eredità familiari.  Poi, spinta dalle mie passioni “boschive, orticole, erbaceae”, iniziavo il sinergico nel terreno di famiglia. Nel 2003 studiavo e vivevo nel Nord Italia, territorio noto per la ricca cultura vinicola, cosi come tutta l’Italia del resto, terra che in questo momento storico, soprattutto negli ultimi due anni, sta subendo fortemente il cambiamento climatico con delle ripercussioni incredibili in termini produttivi sui vigneti. Il ciclo vitale della Vitis è complessissimo e il fattore temperatura e l’alternanza siccità/eccesso idrico sono determinanti per la questione fitopatologica, che favoriscono moltissimo i patogeni fungini, Peronospora ad esempio, almeno quanto, per il nostro Sud, il Corineo o Stigmina sui Prunus (ciliegeti, mandorleti etc). Lo so, molti sgranerebbero gli occhi, chiedendosi cosa c’entri questo con l’arte.  Potrei citare un’infinità di artisti che, per secoli, si sono ispirati alla natura, ai suoi fenomeni, astraendoli, rapiti dalla componente estetica. Decontestualizzare è modus dell’arte. Ecco, non porto nell’arte il tessuto, preferisco entrare con l’arte nel contenuto, non astrarre, amplificare. In una delle sete cito il van Eyck, in particolare l’opera “Il turbante”. La foglia da lontano è perfetta, pur non leggendo a quella distanza i dettagli sulla lamina, le nervature, i rilievi coriacei. Tuttavia, per far sì che la pittura sia illusione di realtà, devo dipingere la struttura microscopicamente: i dettagli non si vedranno ma si percepiranno. L’ invisibile fa la pittura, l’invisibile fa molta vita nel nostro pianeta. Sotto e dentro la semplicità alberga la complessità, che non è complicatezza! Niente può essere semplice come la complessità. Pensiamo al respiro. Così, a prescindere, la fitopatologia è cruciale nella mia ricerca artistica e nell’arricchimento che porta gliforeal ad “Ossi Mori” attraverso la natura, come vedremo a breve. La fisiologia e la fitopatologia sono alcuni dei varchi della questione ambientale, che presuppone l’incredibile cambiamento di un punto di vista. Un patogeno non è solo un patogeno, è un essere vivente, è un rapido trasformatore della materia, è esattamente ciò che noi siamo sul pianeta.

“Sete di vino” deriva a sua volta da un progetto di ricerca più ampio denominato “Ossi Mori”, che testimonia l’ampliamento del tuo interesse verso la sfera naturalistica e botanica e verso il sistema agroalimentare. Come nasce il tuo coinvolgimento per questi ambiti?

Per comprendere “Ossi Mori” è necessario comprendere gliforeal e il suo significato. Perchè gliforeal non è soltanto il nome di un dominio su Internet che ospita la ricerca e la dimensione artistica. E’ uno spazio-tempo in mutamento che esiste nella mia realtà, è la trasposizione di un movimento generatore, di un metodo. Dal termine greco “gliphe”, che significa “intaglio”, “segno” (così come nel termine geroglifico), dal quale deriva il termine “glifo”, sinonimo di simbolo, logo, gliforeal è infatti anche un logotipo, registrato e depositato all’UIBM, ed è simbolo di mutamento generato da un movimento. Il logo infatti è ispirato al “glifo oscillante”, un oggetto meccanico che consente di trasformare il moto rotatorio uniforme in moto rettilineo alternato. Da questo, appunto “real” che sta per rettilineo alternato, oltre che per reale; il disegno del logo è così un profilo aperto, tagliato o aperto che, ruotando, si declina nelle dimensioni, e salendo e scendendo attraverso il moto rettilineo alternato scava, entra, cerca, taglia, unisce, crea. Sul sito, entrando nella home e cliccando su menu, appare un campo bianco e la sequenza dinamica. Nella sequenza il logo sembra sempre diverso invece è esattamente lo stesso: il nostro punto di vista è cambiato, e ci appare diverso...il mutamento non è solo la trasformazione della materia, a volte è un mutamento percettivo dello stesso oggetto. Il glifo entra in una dimensione, la scandaglia, scava, cerca, attinge e genera, in sé, in una relazione o in sinergia. I simboli così declinati sono tasti che rimandano a un contenuto, è chiara l’allusione alla dimensione sonora, che a sua volta evoca spesso anche quella olfattiva. Così, ruotando e salendo, ovvero andando indietro perché in senso antiorario, diventa prima sinergia, ruota ancora e diventa lab, ruota, sale e diventa arte, poi natura, ruota ancora e diventa “ossi mori”, poi design e video. Infatti, quando il glifo o lo sguardo si muove nello spazio/tempo, indietro e in profondità, mutando punto di vista, coglie e incontra la natura, e attraverso l’azione di scavo e percezione della natura nasce “ossi mori”, che la rende manifesta. Il termine “ossi mori” ha in sè il senso della figura retorica di cui è costituito, ma una pausa ritmica e un vuoto centrale ne cambiano l’accento e il senso: “ossi mori” sono le radici. Materia e immateria, che nutre ed è nutrita, buio luminoso, pozzo, chiave, oro, rame. La posizione della natura, tra arte e “ossi mori”, allude al movimento retroattivo e trasversale, alla corsa del glifo che velocemente s’immerge e lentamente torna indietro nel presente. La natura è matrice, mutamento, per questo motivo è centrale e orizzontale, meglio frontale, ed è anche il luogo stesso dove è possibile ogni accadimento. È un archetipo. La dimensione è strettamente legata a quell’approccio archeo che attraverso poiesis abbandona la sua centralità per divenire ponte e, anziché nutrirsi di stimoli scientifici fagocitando in estasi la prolifica bellezza della musa natura per creare astrazioni, cede il linguaggio e incede o incide con il passo. La storia dell’arte narra – da quella rinascimentale a quella contemporanea, grazie a molta arte (pensiamo all’ anatomia), alcune strutture biologiche hanno trovato un nome. In “ossi mori” la ricerca scientifica e l’archeologia, o ancor meglio il linguaggio, si incontrano. Questo è un momento fondamentale per la questione ambientale. Stratificata è la memoria storica e antropologica, stratificata lo è quella del pianeta. Il più grande e ricco narratore di storia e storie è infatti il suolo. Memoria come l’acqua, come la pelle, limen del pianeta che ci ospita, come nella “pelle al limen”, tra noi e il mondo risiede la pelle, la nostra e quella delle cose. La pelle del pianeta è il suolo, a qualunque profondità questo si trovi. Metacorpo, memoria collettiva: tutto è infinitesimamente connesso come in rete, come nell’avviluppo di rame e radici. Lì e qui il rame, complice del mutamento, elemento fondamentale nell’opera “Del punto”. Un mutamento industriale, un mutamento agronomico.

Sei diventata anche coltivatrice diretta, cosa hai appreso da questa nuova esperienza?

La mia passione per la vegetazione e, più in generale, per vita sulla Terra, ha radici lontane...i miei genitori ne sanno qualcosa.  In ogni caso, ha iniziato a prendere corpo seriamente in due momenti diversi. Il primo momento è stato quando, a 14 anni, provando a glissare su delle allergie di livello alto per un anno intero, seguii mio nonno nelle campagne tra uliveti, ciliegeti, agrumeti. Tecniche colturali, conoscenza dei cultivar in parte magistrale, metodo di difesa e coltivazione discutibile, come quella dei contadini che, tra gli anni ‘50 e gli anni ’90, hanno depauperato il nostro substrato. Così apprendevo, studiavo e smontavo. Cernita e così via, fino al successivo shock anafilattico. Soffrivo, non potevo rotolarmi nel polline. Prima o poi sarei morta. A 16 anni i miei mi portarono da un allergologo, un luminare di Padova che mi mise di fronte ad un allarme e alla necessità di abbandonare tutte le mie passioni, non solo quelle naturalistiche. A suo avviso era pura follia lavorare con materiali inerti, pigmenti, sostanze irritanti inerti, polveri, pollini. Mi suggerì di studiare lingue e lavorare in Costa Crociere, ah ah ah! Rido ora ma allora uscii da lì con l’animo pieno di terrore. La mia risposta fu ovviamente negativa. Iniziai a studiare tutto sulle specie a cui ero allergica. Studiare il polline e le malattie autoimmuni, esplorando discipline e approcci più o meno chimici, più o meno alchemici, più o meno olistici. Alla fine non c’era molta scelta, se non quella di  somministrarmi il veleno quotidianamente aumentando, aumentando. Ci sono voluti anni. Ora sono lontana dal codice rosso. Posso fare qualche starnuto. Nella fase culminante di questo percorso già studiavo e nacque così l’opera dedicata alla polvere, manifesto della crisi pittorica e del passaggio alla tecnologia, al suono e alla scultura. Poi, tornata in terra d’origine, tutti questi mondi si sono uniti e ho iniziato a seguire direttamente la terra capovolgendo totalmente il metodo. Ormai studiavo fisiologia e fitopatologia e coltivavo un sinergico, immerso in un contesto inusuale tra un agrumeto e una pineta, un suolo ostico, acido. La consapevolezza della problematica climatica era già pre-Covid. Entrati in piena pandemia la ricchezza di tempo in più mi ha concesso di sviscerare, esprime, strutturare, studiare. È stato allora che ho registrato il logo all’UIBM. Poi, grazie a un gruppo facebook di fitopatologia, costituito da amministratori che, oltre ad essere persone splendide e appassionate sono anche esperti, ebbi modo di condividere la passione e l’esperienza. Insieme gestivamo numerose problematiche pubblicate ogni giorno da più di sessantamila utenti. Non potete immaginare i disastri ambientali che possono essere prodotti anche solo negli appartamenti e che, ahimè, spesso sono il frutto di una divulgazione malsana e assurda, di metodi spacciati per metodi di difesa e coltivazione casalinghi e bio, quando invece sono nocivi, assolutamente dannosi per il suolo e per gli organismi vegetali. Una dura lotta. Facebook e il web in generale sono pieni di consigli assurdi, come uso di sale e intrugli fai da te con sgrassatori. Per non parlare dell’uso di principi attivi revocati o semplicemente l’uso sbagliato di biocidi ammessi, ma che vanno usati nel periodo corretto per non uccidere insetti utili o, almeno, con il dosaggio idoneo. Vedi il rame (Bacur), amatissimo anti-fungino largamente usato e ammesso, utile ma spesso abusato, soprattutto in passato. Ma “ossi mori” sono le radici e niente è più importante, in questo momento, degli alberi giusti nei posti giusti. Tuttavia è importante comprendere che il giardino “leccato” con i bei fiorellini esotici non è quello che ci serve. È bene capire anche che questa storia della pianta perfetta non include il concetto di sistema naturalistico. Abbiamo verso le piante lo stesso approccio che viene adottato rispetto all’uomo contemporaneo, concepito come avulso da un contesto. Tutto è parte di un sistema. L’arte insegna quanto l’invisibile spesso sia la cosa più importante.

E’ tutto ciò che sta sotto la linea del suolo che calpestiamo: le radici, gli organismi simbionti i detritivori, le sostanze inodore, i nutrienti dai quali dipendono le piccolissime erbe, le erbacee, le infestanti (quali? quante?), gli arbusti della macchia che sia tirrenica, mediterranea o alpina, gli insetti (non solo le api mellifere), soprattutto quelle selvatiche, i bombì e tantissimi pronubi, sirfidi, aracnidi, coleotteri, uccelli ...Uccelli, punto. Non serve piantare un leccio a ridosso del mare in una giornata assolata per farsi pubblicità e poi vederlo morire (non cito luogo e iniziativa). Il leccio la non vuole stare. Il verde delle zone antropizzate va gestito con gli esperti, coinvolgendo la collettività. Non si può divulgare la scienza, ma si può fare in modo che chi non ne conosce il linguaggio si affidi a chi può tradurlo in modo da radicare lentamente, attraverso la passione e la conoscenza. Ci vogliono azioni risolutive. Ma già un passo in avanti sarebbe quello di non appaltare la gestione del verde urbano a chi non sa cosa tocca. “Ossi mori”, quindi è un approccio, un’attività di coltivazione, una ricerca sulle convivenze tra specie botaniche, è un osservatorio naturalistico, un luogo di condivisione, dibattito e ricerca.

E’ l‘urgenza di dichiarare che l’arte ha il dovere di chiamare le cose con il proprio nome, cantando quel nome. Deve dare un supporto.  

La tua ricerca implica anche una nuova consapevolezza sul legame con il territorio e, più in generale, con l’ambiente. A tuo avviso, l’arte contemporanea può, nell’era della società liquida, sensibilizzare la coscienza collettiva su un rinnovato senso dell’abitare la Terra che, come ricorda Heidegger, è la nostra casa comune?

Non solo può, ma deve.

A tuo avviso l’arte contemporanea, innestata in questi settori che possono apparire lontani dalla sua essenza, potrebbe correre il rischio di essere smaccatamente asservita al sistema economico più di quanto non lo sia già?

Io non sono un’artista referenziale. Concepisco l’arte come dimensione interiore che non è asservita, ma non avremmo traccia di essa se nei secoli non vi fosse stato un pretesto materialistico, idealistico o politico per la sua attuazione. La motivazione della committenza viaggia parallela e spesso non coincide con quella dell’artista, perché la committente ha scopi più che motivazioni. L’artista ha motivazioni, l’arte “ha” e basta. Pur senza materia, pur di solo concetto. L’ arte ha lo stesso potere di una suggestione spirituale o della bellezza, o dell’orrore, o ancora del non senso. L’arte ha il potere, intrinseco al concetto di energia, di inserzione o potenziale, di ordine e di entropia. L’arte è la possibilità di vivere un mutamento con una consapevolezza retroattiva. Ci sono delle situazioni estreme in cui l’umanità si è trovata a far capo a tutte le sue energie per la sopravvivenza, questo momento storico è uno di quelli. Non ci facciamo distrarre. Nessun risultato straordinario si ottiene senza un dispendio energetico. La natura non è bucolica. È forte. Il suo nuovo equilibrio sarà sempre come deve essere. La natura è violenta. Poco di fiorellini. Semplicemente, ne abbiamo bisogno. Nessuna falsa adorazione contemplativa. Si certo, io stessa mi illumino d’immenso tra le mie coltivazioni. Ma di base la nostra posizione assertiva non può e non deve essere sbilanciata. Si tratta di restituire spazio - è un ossimoro -, per avere spazio dobbiamo restituirne. La vegetazione in un luogo iper ossigenato è scarsa, dunque le nostre città inquinate sono perfette per favorire la vegetazione. Molti dei nostri inquinanti gassosi monossidi pm10 sono utili agli alberi. Abbiamo tutto e non possiamo farci convincere del contrario. 

Ci puoi svelare qualcosa sull’opera che porterai alla Fiera di Roma?

L’opera inedita che porto a Roma, alla Fiera “Bonum”, incarna il movimento/ mutamento di gliforeal in “ossi mori”, per svelare senza svelare…

E’ un’installazione stratificata, “una domanda sotterranea e sussurrata che si fa respiro, che si fa vento, suono, semina, illuminando l’invisibile vuoto” (cit. dal testo di “Bacur – Materiografie – Ossi Mori”).  “Custode percettiva” della fiera è Fabula-Fabiola Zielli, curatrice all’interno dell’associazione culturale “Strangedays”, che ha organizzato l’evento “Bonum”, in collaborazione con Aromarte.

Strettamente legata al lavoro che porterò a Roma è l’opera in pietra intitolata “Del punto”, sulla ricerca del limite della rottura. In questa creazione, un blocco di pietra di 200 kg, fissurato, è stato lavorato fino a raggiungere un peso di poco più di un chilo e uno spessore estremo. E’ un lavoro tensivo, concettuale, in cui l’esperienza del dare forma diventa sempre più rischiosa man mano che si sottrae materia. Più si alleggerisce, più si toglie o cancella e più si rischia di distruggere tutto. Ma, nell’equilibrio tra energia e delicatezza, la forma e l’essenza acquisiscono una forza maggiore. Una foglia è la prima opera, chiaramente in riferimento alla dimensione “ossi mori”. Al centro, lui, il rame o Bacur, elemento di congiunzione tra tutte le dimensioni, collegato a un tasto di una vecchia tastiera di un pc, il tasto “delate”, “cancella”, che riporta la dicitura “del”. Da qui il titolo dell’opera, “Del punto”.  In fondo, il punto è il “pellein”, il più piccolo corpuscolo visibile ad occhio nudo. Ad esso si riduce ogni materia. E’ con un punto che possiamo terminare, mutare, passare a, digitare un link. Il punto non è mai un termine, è sempre un varco, un inizio.

Come intendi sviluppare i progetti “Sete di vino” e “Ossi Mori”?

Lo sviluppo di “Sete di vino” consiste nella creazione di cartografie territoriali, mappe liquide. L’evoluzione più immediata di “Ossi Mori” è la concretizzazione del presidio naturalistico al casale che sto ristrutturando, uno spazio botanico già in sviluppo, e il coinvolgimento della collettività, mentre si prepara la tappa successiva a quella di Roma. Entrambi i progetti hanno una natura itinerante, sono in crescita e si arricchiscono anche dello sviluppo degli altri due progetti paralleli, “Il limite della rottura” ed “Eccesso visivo”, le due prossime mostre- percorso.  

www.gliforeal.com