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L'ESPERIENZA COME ARTE

L’ESPERIENZA COME ARTE

Di Angelo D’Amato (artista e docente)

 

Quello che più d’ogni altra cosa colpisce in Dewey è l’assoluta inosservanza a qualsiasi separazione che vede l’esperienza estetica come lontana dall’agire quotidiano. Ci sembrerà alquanto insolito accettare l’idea che un’azione di ordine pratico, anche apparentemente banale, possa considerarsi esteticamente rilevante. In realtà Dewey parte da un presupposto innegabile, l’esperienza per dirsi estetica è caratterizzata da un pieno compimento che si palesa attraverso un insieme, in cui tanto il processo quanto il risultato acquistano la stessa validità. La cosa più sorprendente e come il filosofo intenda l’esperienza estetica al pari di un’azione morale, anzi arriva, a mio modesto parere, a sostituire una dissertazione sui fondamenti della morale con una ricerca sui fondamenti estetici dell’esistenza. A ben guardare l’esperienza quotidiana, come quella più prettamente artistica, mostra dei limiti nel momento in cui diventa attività automatica, routine, ripetizione meccanica di gesti e pensiero. Sembrerebbe che nell’interazione (altro termine caro a Dewey) dell’individuo con ciò che lo circonda scaturisca una esperienza nei termini di un compimento, di un fine che porta in sè manifestazioni di adattamento, evoluzione, resistenza e trasformazione: si tratta in ultima istanza di coniugare l’estetica con elementi non estetici derivanti dall’esperienza comune. E’ quest’ultima che offre all’artista la possibiltà di progredire in sintonia con quanto “vissuto”, non rimanendo ostaggio di coloro per cui l’arte, quella “pura”, risponde solo al proprio apparato geometrico/compositivo (corrente artistica poco incline ad una forma di conoscenza che trova nell’esperienza l’elemento fondamentale di validità).

 Certo è che queste manifestazioni di ordine estetico-esperenziale debbono considerarsi indissolubilmente legate a forme di intelligenza, sensibilità e materia. La sensibilità occupa un posto di rilievo all’interno del processo interattivo tra l’uomo e ciò che tratta, osserva e respira. Il corpo è sede della sensibilità, del sentire come elemento imprescindibile di “impressioni”, di emozioni; ma il corpo è anche sede dell’intelletto capace di organizzare, controllare, formulare soluzioni in merito agli stimoli esterni. Ed è qui che l’estetica deweniana si pone “nel mezzo” considerando la percezione non come esclusivamente legata alla sensazione, ma nemmeno come fatto puramente cognitivo.

 Dewey insiste nel considerare l’esperienza estetica come relazione tra “subire e agire”. Personalmente ritengo che al primo termine si possa affiancare l’aggettivo “attivo” e al secondo quello di “progressivo”. Al subire attivo è affidato il compito di assimilare ogni “azione” fruibile (percettiva, sensoriale, interpretativa), all’agire l’onere di creare forme nuove di comunicazione. Tanto la percezione quanto la creazione vanno considerate insieme come momento imprescindibile dell’esperienza estetica compiuta. Allo stesso modo si tratta di fare del “materiale” di cui si compone un’opera come appartenente ad un mondo comune, poiché il prodotto artistico riemerge in una forma nuova in relazione alle diverse interpretazioni oggetto di riflessione su di esso: l’opera ha un suo legame con il pubblico, la percezione, quella individuale e collettiva, è parte attiva di questo confronto che si dipana attraverso il proliferare di riattualizzazioni e trasformazioni rispetto al contesto entro il quale l’opera stessa è stata concepita.

Dunque rispetto quanto brevemente descritto si può tranquillamente affermare come Dewey con il suo memorabile testo “L’arte come esperienza” sia stato un anticipatore e ispiratore non solo di molte delle ricerche artistiche del secondo dopoguerra in America ma anche di quelle correnti sorte negli anni 60 e 70 etichettate come arte ambientale, arte istallattiva, arte site specific o arte relazionale. In effetti a ben guardare queste correnti artistiche, volte alla decodificazione di ambienti “immersivi” sono stati in grado di realizzare i presupposti di una azione/reazione il cui carattere, di derivazione storico-sociale e politica, li ha resi   esperienza essi stessi, un’esperienza simbolica nata come surrogato estetico/sensazionalistico della “vera” realtà. Mi chiedo se al giorno d’oggi non sia più pertinente parlare di una esperienza come arte piuttosto che dell’arte come esperienza considerando quanto il fruitore alla pari del produttore siano parte integrante dello stesso sistema di rimandi in un alternarsi di ruoli, al limite dell’inverosimile.