A Venezia, è visitabile dal 18 Luglio al 18 Agosto la mostra Sand on the floor, avente i dipinti, le sculture e le installazioni di Binta Diallo. Esteticamente a lei preme stimolare lo spazio per connetterne l’interno all’esterno. Qualcosa che abbia il “microcosmo” nella raffigurazione d’una corolla “ossea” al “bacio” dei colori. L’artista parte dalla sabbia, in se stessa fuggevole, per connetterla al “mero velo” d’una “resurrezione”. Essenzialmente c’è uno “stato vegetativo” per “l’avorio” dell’esteriorità che accolga il “rosa” della carnalità. Possiamo immaginare il desiderio finale d’una trasfigurazione sul “bianco” spirituale. La pittura “veleggerà” costantemente fra la faticosità d’un motore “a rotula” e la “leggiadria” d’un grembo che rigeneri. Immediatamente, si percepirà lo stato embrionale per la forma in cui la pelle si connetta alla sua esteriorità. L’artista ricorre ad una prospettiva che virtualmente comporta gole, avvallamenti, caverne ecc… Sarà il “macrocosmo” per gli abbracci o le strette di mano, in una comunanza tonale fra la pelle e la roccia. Magari si può immaginare il sorgere del sole: non solo oltre le montagne ma pure dentro le sue incandescenze. Qualcosa di molto connettivo, e sino a consentire la stessa vita. Le incandescenze dei quadri rimarranno “seccate” dalla sabbia, se comparate al passo rallentato dalla stanchezza.
Jean-Luc Nancy ricorda che in francese la parola spazio non ha una vena soltanto estensiva. L’individuazione d’un certo luogo conterà poco. Piuttosto, lo spazio è di tipo accogliente. Esso identifica l’aver luogo, anziché il luogo. Lo spazio permette che noi siamo “accolti” mentre ci troviamo. Jean-Luc Nancy vuole esemplificarlo principalmente con la piazza. Là accade che gli uomini si ri-trovano, nella misura in cui “s’accolgono” fra di loro. Nella piazza, “s’incrocia” qualcun altro: noi non vi stiamo, bensì vi prendiamo posto. Jean-Luc Nancy crede che, vedendo un lago, questo abbia luogo molto più che semplicemente sia luogo. La distesa d’acqua costituisce il riflesso del cielo, dentro l’uguaglianza d’una forma a volta. Sempre la vista dà un fondo. Essa distingue la dimensione interna ed esterna, di qualcuno o qualcosa. Un lago però nasconde il suo fondo alla vista, che vi resta ancorata in superficie. Là non c’è un luogo, ma là ha luogo. Il lago “accoglierebbe” la nostra vista, senza che questa lo distingua.
Binta Diallo esibisce virtualmente il “laghetto” sabbioso d’una placenta. Qualcosa che giungerà a “germogliare” fra le pagliuzze d’un nido. L’artista gioca con la prospettiva, lasciando che i “pistilli ossei” si facciano covare, al cheto ondeggiare di “piume salivari”. Più astrattamente la maternità non è di luogo, bensì ha un luogo: la persona matura responsabilizzandosi. Binta Diallo letteralmente spiazza o spaesa la raffigurazione. L’interno s’apre verso l’esterno, ma sotto il tramite del velo, con tutta l’incertezza del caso. Più favorevolmente, l’abbraccio “spiazza” per togliere responsabilità alle persone. Binta Diallo ama una sabbia “salivare”, permettendo alla stanchezza per l’acido lattico “d’idratarsi” almeno con lo sguardo altrove. Quanto ci piace il crogiolarsi al sole in cima al colle! Il pullo che esce dal nido all’inizio è “spaesato”, ma poi impara a fluttuare placidamente in cielo. L’artista ha sia i toni “bloccati” dal secco, sia la prospettiva oltre l’aria (forse spiritualmente). La sensazione è che lei alla fine tolga il “velo”, nell’incastro “spiazzante” fra l’interno e l’esterno delle figure.
In biologia, l’avorio ci rimanda alle zanne, aventi funzioni sia offensive sia difensive. Nei quadri di Binta Diallo, pare che alcuni “pistilli” riescano addirittura a “parlare”, contorcendo la loro “ugola” di salivazione. Il tono sabbioso favorirà la commistione fra il palato e la respirazione. O, più semplicemente, ci sarebbe una cassa armonica dal “rigoglio” vegetativo. Ma quanto la “zanna” tornerà nel nastro che confeziona? I regali funzionano sempre “d’accoglienza”. Essi non sono qualcosa, giacché hanno qualcosa. Secondo Binta Diallo, conta lo scartare sulla figurazione, armonizzando astrattamente il “materialismo” osseo almeno con la leggiadria d’una rigenerazione.
Anticamente l’avorio serviva anche per il telaio delle tavolette cerate. In alcuni quadri di Binta Diallo, il velo sembra più “chiuso” in se stesso, ma dialetticamente per contrassegnarne la persistenza nel tempo. La solidificazione contorta della cera o della lava viene dal calore, ossia dall’aprirsi verso l’esteriorità. I veli pseudo-sboccianti di Binta Diallo dunque saranno stati “riesumati”, oltre la loro impronta di monumentalità. Più genericamente, qualcuno che rammenta deve letteralmente “scartare” lo “spaesamento” sugli appigli d’un passato che “solo gli riecheggia”. L’artista avrebbe anche riconfigurato una “vanga” sull’ugola che “idrati”. Tutto il peso “ad orma” del velo necessiterà di farsi percepire alla “boccata d’ossigeno”, in quanto rammemorabile. E’ il contraltare sul palato per “l’abbraccio” fra la rotula ed il grembo.
Mia recensione estetica per la mostra dal titolo Sand on the floor, con le opere dell’artista Binta Diallo, ed allestita a Venezia, presso la Galleria “A.Topos”, dal 18 Luglio al 18 Agosto 2019