Albert Einstein (1879-1955) ha reso affascinante il concetto di relatività: affascinante e sconvolgente. La dicotomia ha le sue basi nel timore di dover affrontare una consapevolezza e nella convinzione di poterla contrastare. Il concetto di relatività non era certo nuovo. La scienza dell’Ottocento, e in special modo quella di fine secolo, si rese conto che a furia di scavare c’era di che trovare ben altro della verità immaginata per secoli. Max Planck e Niels Bohr, ad esempio, si resero conto che gli strumenti a loro disposizione per raggiungere il cuore del determinismo erano praticamente spuntati, mentre la scienza precedente aveva affermato il contrario. Il relativismo, grazie a loro, grazie a Werner Karl Heisenberg, grazie a Kurt Gôdel e ovviamente grazie a Einstein (e a molti altri) durante gli anni Venti del secolo successivo, divenne una certezza.
Certo è con Einstein che il concetto di relatività diventa celebre, quasi popolare. Questo concetto scombina i piani della scienza tradizionale e provoca una vera e propria crisi dei valori. Paradossalmente essa si avvicina alle convinzioni, per nulla filosofiche, della macchina industriale, in continua marcia verso nuovi approdi. Tutto ciò s’insinua nell’animo umano come una sorta di apparente veleno che distrugge il caro vecchio mondo fatto di sicurezze granitiche, sfocianti nel finalismo religioso e nel determinismo scientifico.
Tutto sommato, in sostanza, la scienza pratica nata nel Seicento con ottime premesse, baciate poi da Illuminismo e da Razionalismo, non è in grado di dimostrare la sua efficienza fondamentale alla pari della religione, prigioniera della favola (sebbene, intendiamoci, non in modo dozzinale). Se l’una è prigioniera della favola, l’altra è prigioniera della presunzione. Ma attenzione, la seconda, la scienza, arriva a rendersi conto dei suoi errori di valutazione. La scienza moderna crea il dubbio e ci convive.
La convivenza della scienza con il dubbio e quindi con la ricerca indefinita (per ora, l’uomo non si arrende facilmente) è confermata in modo spettacolare proprio dalla figura di Einstein. Egli è stato uno scienziato modello. Dotato di umiltà e modestia, Einstein ha sviluppato teorie nuovissime senza aspettarsi granché da esse, se non la possibilità di uno sviluppo, di un’evoluzione capace di abbandonare mentalmente il vecchio e affrontare il nuovo con impegno e vigoria.
Einstein sembra dire che in fondo l’uomo ha finora solo grattato la superficie del mondo, e sembra aggiungere che le potenzialità intellettuali umane siano in grado di formulare idee, teorie e tesi nettamente superiori al poco sapere (enfatizzato) e alle molte saccenterie del passato. Quest’ultima osservazione, chiama ovviamente in causa la religione, fonte di frasi fatte e strumento di paralisi della ragione. Droga dei poveri e degli ignoranti. Elemento di sbrigativa consolazione.
Si sostiene che Einstein affermasse: “Se un dio non c’è, bisognerebbe inventarlo”. Non si sa quanto il filosofo fosse religioso, ma più verosimilmente Einstein si riferiva alla reperibilità di un modello speculativo affidabile, con il quale abbattere il relativismo e cogliere un assoluto fatto di conoscenza mobile quanto sicura. Giusto mezzo per giusto fine di ogni fenomeno.
Dario Lodi