SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE di Luigi Pirandello (1867-1936), anno 1921 (con prefazione, 1925).
SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE è il dramma più noto e più rappresentato di Pirandello (Nobel nel 1934). Fa parte di una trilogia (Questa sera si recita a soggetto e Ciascuno a suo modo, le altre due opere) ed è sicuramente la pièce più complessa. Quando fu rappresentato per la prima volta a Roma, al Teatro Valle, il dramma fu sommesso di fischi e di urla che condannavano l’autore al manicomio. Non è semplice districarsi in questo lavoro di Pirandello, per le molte tematiche che vi vengono accennate, per la mancanza di un ordine temporale e per il teatro nel teatro che l’autore attuò per primo con estremo coraggio. Senza sprezzo del pericolo, si direbbe, ovvero senza curarsi della mentalità ristretta dell’epoca.
Va detto che Pirandello sembrava un autore nordico (tipo Strindberg, tipo Ibsen) prestato al teatro italiano, notoriamente teso al melodramma e ben poco incline ai grandi turbamenti spirituali della religione protestante. L’italiano atipico, mescola abilmente la tragedia calvinista con lo scetticismo e il distacco praticati dal fedele cattolico in quanto “protetto” dalla Chiesa, vale a dire “salvato” da una responsabilità diretta con la trascendenza. Nel mezzo, il cattolico può concedersi ogni avventura speculativa, rimanendo sempre al di qua del problema esistenziale (salvo speculatori acribici e intellettualmente più attrezzati, non certo bisognosi di parrocchie).
Pirandello muove tutti i suoi apparati in funzione di un’idea centrale che riguarda il “burattinaio” che muove i fili della vicenda umana. Lo fa moltiplicando le allusioni, le complicazioni espressive, i comportamenti “alla giornata”, andando spesso fuori tema per una volontà da parte del personaggio che esula dalla parte che gli era stata assegnata. I sei personaggi (più una settima che appare all’improvviso) arrivano dal capocomico e anziché esibirsi nella recita di loro competenza, si mettono a raccontare, alla spicciolata, le loro angosce, il loro non vissuto e forse non vivibile, il loro sotterraneo disprezzo per ciò che sono costretti a vivere. Due i personaggi che restano bene impressi: il Padre e la Figliastra, destinati, loro malgrado, a un incontro amoroso: la Figliastra è costretta a prostituirsi e le viene affibbiato come cliente proprio il Padre che, diviso dalla famiglia, non vedeva da anni. Qui Pirandello sembra dire che senza una guida ferma e moralmente sicura (la figura divina) l’uomo è destinato a sbandare e a perdersi nell’infamia.
Può sembrare strano, ma anche un autore spregiudicato e moderno come Pirandello, cede qualcosa al principio provvidenziale divino di manzoniana memoria, pur non credendoci e imbrogliando le carte a bella posta: quasi uno sberleffo alla credulità che depriva l’uomo di una personalità sensata, negando la possibile creazione di una laicità virtuosa. Il drammaturgo siciliano se ne rende conto “strada facendo” caricando i suoi personaggi di carattere e portandoli a sfidare il capocomico che a un certo punto non si raccapezza più e cede alle parole mai non dette ai suoi presunti sottoposti, non finendo di meravigliarsi per le loro storie, ben più intriganti di quelle del copione e soprattutto più vere.
L’autore ha la grandissima abilità di tenere tutto in sospeso e di spezzare le scene con colpi di scena artificiali, forniti dalla macchina teatrale. Troncature e deliri verbali. Vocaboli mescolati a caso, parole inventate, contaminazioni linguistiche, concetti vertiginosi, confusione voluta, sovrapposizioni, risate in mezzo al dramma, cambio di toni, distrazioni, illanguidimenti, falsità, fantasie, aderenze involontarie al nuovo personaggio emerso dal personaggio finto.
Ebbene, Pirandello anticipatore di buona parte del teatro del ‘900, compreso il teatro dell’assurdo, compreso Antonin Artaud, compreso Samuel Beckett. Un convinto assertore, il nostro drammaturgo siciliano, del “flusso di coscienza” (descrivo ciò che sento non in ordine temporale, bensì emotivo). In questo anticipatore di Franz Kafka, di James Joyce, di Virginia Wolf e molti altri (anche nel cinema).
Luigi Pirandello non ebbe una vita facile. Fu accanto alla moglie, colta da una grave depressione dopo il fallimento dell’azienda di casa. Ebbe un ”amor fou” con Marta Abba, sua attrice prediletta. I due avevano trentatré anni di differenza. La ragazza (aveva venticinque anni e lui cinquantotto quando s’incontrarono) ricevette numerose lettere d’amore che rivelano un Pirandello romantico e sentimentale, nudo e debole di fronte a una passione amorosa divorante. Non si trattava solo di sfogo fisico, bensì questo amore (a quanto pare mai consumato), bensì di una visione esistenziale possibile che dava molta creatività al grande drammaturgo. L’amore che non aveva mai potuto avere con la moglie, si presentava nelle vesti di questo “angelo” sbigottito e lusingato: altra “invenzione” di una provvidenza instancabile, questa volta, purtroppo, per nulla risolutiva. (Foto, una rappresentazione al Teatro della Pergola a Firenze; Pirandello e Marta Abba)
Dario Lodi