A Verona, presso la Galleria “Artericambi”, dal 28 Gennaio all’11 Marzo è visitabile la mostra collettiva Looking up, con le opere di Lorenzo Conte, Federica Cortese, Letizia Frescura e Claudia Sallustio. Sembra che a loro interessi, esteticamente, un “rimbalzo” del concetto sul “ritaglio” della forma. L’astrattismo c’invita a guardare oltre l’opera. Tuttavia, resta da chiedersi come… Forse, conviene “allenarsi” nella figurazione, tramite le forme che “si rimodellano”. A Verona, la mostra è stata curata da Silvia Concari. Dal suo titolo, affinché noi possiamo alzare lo sguardo, ci servirà un’accurata “sterzata” della percezione. Un taglio sulla tela di Lucio Fontana apre un “altro mondo” di sensi. Però, questo funziona come un “rimbalzo” della nostra percezione, sulla forma che “si rimodella”. L’astrazione chiede che “si parta per la tangente” della figurazione, “coraggiosamente” contro la comoda quotidianità d’un realismo banalizzato, sino all’autogiustificazione. Nella dialettica che s’instaura fra un “ritaglio” della forma ed un “rimbalzo” del concetto, noi dunque percepiremmo il looking up. Menzioniamo la filosofia di Martin Heidegger, per il quale l’opera d’arte deve sapere “come può urtarci”. Vi collegheremo pure la denominazione della galleria, che seleziona i ricambi. E’ troppo facile “buttarsi a capofitto” nelle “fantasie” dell’astrattismo. Più precisamente, ci pare che il looking up accetti il costruttivismo. Bisogna inseguire le varie “sterzate” della forma. Al visitatore servirà un impegno, aprendosi il nuovo orizzonte della materia (installata, pittorica, o digitalizzata), grazie al simbolismo concettuale. Da un primo “urto”, contro il realismo troppo ingenuo, noi “sterzeremo” verso un “ricambio”. L’astrazione potrà spiritualizzarsi, persino alla garanzia di “rivivere”. E’ la “lezione” del cubismo storico: le varie “visioni”, dai “lati” che assemblano la nostra rappresentazione, si devono rimodulare all’infinito, e per un costruttivismo che doni “un’anima” al soggetto. L’astrazione giungerà a rivivere, grazie ad una trascendenza della forma (partendo da un semplice simbolismo).
A Verona, Lorenzo Conte esibisce il dipinto ad acrilico che s’intitola Spada e scudo. Esteticamente, gli piace il magnetismo fra le figure, lasciandoci col “fiato sospeso” riguardo al possibile orizzonte d’un loro distacco. Chi visita una mostra d’arte contemporanea è sempre indotto a ricostruire una “storia”, soprattutto dal concettualismo più minimale. Fra la spada e lo scudo, noi immagineremo un contatto “ammaccato” alla figurazione, ergo “disturbante” alla psicanalisi. Oppure sarà stata “masticata” una libidine “caramellosa”. Nella gigantografia d’una dentatura, la spada fungerà da incisivo, mentre lo scudo da molare. Lorenzo Conte ricorre ad una dialettica pure tonale: il nero dell’incubo ci racconterà una storia (dai propri simbolismi) che avviene al “fosfene” d’un rosa epidermico. Qualcosa che lo spettatore a fatica riuscirebbe a “sgrassare”, astraendo il “ricambio” d’un concettualismo. La pelle respira; ma il “cuore ferito” (fra la spada e lo scudo) continua a “proteggere” le “carezze” che gli portiamo, dai bordi al “fosfene”. E’ sempre difficile staccare dal proprio corpo chi ha un carattere assai sensibile.
Nel quadro ad acrilico che s’intitola Due stelle, Lorenzo Conte dà al simbolismo una vena più spiritualistica. All’orizzonte d’una materia terrestre, che ha il rosa delle dune sabbiose, il “rimbalzo” del “fosfene” pulsa al tentativo di trovarsi la giusta direzione, contro ogni malinconia, ed al punto cardinale sotto una Croce del Sud. Il cielo, intensamente “rilassato” dal blu, comporterebbe una “navigazione” ascensionale. Nei mari caldi, in specie all’emisfero australe (se il turismo, come mercato per i consumatori, nasce in Europa), le acque si percepiscono talmente esotiche da rinfrescare, con le loro onde, anche le secche dune di sabbia. Forse a qualcuno parrà che la stella di sinistra sia più ancorata alla costa, avendo una pulsazione “irrigidita”. Sarà come per l’aeroplano, che fende le nuvole senza per questo uscire dall’orbita terrestre. La stella di destra si percepisce in via assai più ascensionale. Anzi il suo spettro diventerebbe lo stesso d’una crocifissione. Dunque, da un “abbraccio appena sepolcrale” (al “sudario” della costa, e sotto il “marmo” delle nuvole, le quali non superano mai la troposfera), si passerebbe all’accompagnamento d’una resurrezione, verso la trascendenza spirituale.
A Verona, Federica Cortese ha esibito il quadro ad olio Senza titolo, dove il bianconero potrà “diluviare” mediante il grigio. Più precisamente, a lei interessa “smascherare” la crisi della soggettività moderna, confusa da un obbligo sociale, se tutti noi assumiamo un diverso ruolo: non solo in famiglia od a lavoro, ma sovente anche divertendoci. Il colore che sgocciola serve a sfasciare la forma assai inquadrante del ritratto. Magari ne rimarrà una mera miniatura, proprio al centro della testa, a fungere da “amigdala”. Smascherando ogni ruolo (al seguito di Luigi Pirandello), quantomeno l’istintività riuscirà a “cavalcare” il “caos” per la liberazione della soggettività. Il naso e la bocca sarebbero stati visibili verso la destra del quadro. Le loro aperture avranno ricevuto un ispessimento ingannatore, come per l’ocello degli insetti. Se facessimo ruotare il quadro, allora gli elastici della maschera si trasformerebbero in zampette. Con più difficoltà “ripeschiamo” gli occhi. Pare che l’artista sia radicale, nella sua contestazione al monoblocco dell’identità sociale. La rotazione del volto, se non dell’intero quadro, appare troppo “sporcata” dal grigiore per appiattirsi al “falso rimbalzo” in un “relax” dell’olografia. Anzi dal caos figurativo si rivelerebbe ingigantita l’oppressione d’un parassita.
Nel quadro ad olio che s’intitola Qui ora, domani là, come mi vedrai? accade che Federica Cortese, al contrario, cerca un’illuminazione vitalisticamente “fruttuosa”. Il disordine è diventato più che altro simbolistico. Sembra che una donna adulta regga a sinistra un neonato, ed a destra un pupazzo talmente antropomorfizzato da “invecchiare” per un pianto, di tristezza o di vergogna. Qualsiasi frutto ha un suo ciclo di vita. A Federica Cortese preme il < qui ora, domani là > fra la maturazione e l’avvizzimento. Nel mezzo non si simboleggerebbe l’animo (come per gli uomini), ma almeno la luce gialla del sole. Questa permette anche la riflessione. Se a destra “s’infagottasse” il più realistico neonato, a sinistra, allora l’abbraccio materno gli garantirebbe la perenne protezione. Il gocciolamento del giallo qui può raccogliersi in una pozza di pelle violacea. Così la passionalità si rende controllabile. Aggiungiamo che un adulto potrebbe gustarsi la vita in modo “giocoso”, al presente, od al contrario ipotizzare ansiosamente una deadline, dal futuro.
Letizia Frescura ricerca un costruttivismo “diviso” fra le composizioni dell’astrattismo e gli “slanci” del futurismo. Per la sua Installazione, lei ha raccolto dei materiali vari, direttamente dalla Galleria “Artericambi”. A “primeggiare” è un “castello di sedie”, che però giungerebbe virtualmente a suonare come una batteria, in una sinestesia. Dal basamento, s’alzerebbero un paio di torri, a lanterna od a camino. Può darsi che la musicalità della batteria riesca a “sgrassare”, come una spugna abrasiva, ogni stridio fra gli oggetti barcollanti. Molte sedie hanno un design a fori, e compare la cassetta di plastica da ortofrutta. Sono elementi rintracciabili in una lavatrice. Gli sgabelli delle torri ci rinviano al costruttivismo di Vladimir Tatlin. Con più funzionalismo, l’eventuale imballaggio sarebbe stato tramutato in cassa acustica, se alzato in verticale. Il camino aiuterà l’installazione a carburare, perdendo la staticità della seduta.
Nell’opera d’arte che s’intitola Pelmo, Letizia Frescura ha usato il poliuretano espanso. Essa è stata appesa al muro. La spugna ci inviterebbe a modellare la durezza d’una corteccia linfatica, da un albero. Il Monte Pelmo, nelle Dolomiti bellunesi, s’alza roccioso come un enorme sedile. Secondo la leggenda, però, esso anticamente era talmente verdeggiante da ospitare i pascoli persino alla sua sommità. L’estetica del ricambio diventa quella per una scheda madre, al caratteristico verde della vetronite. Una spugna si logora col tempo mediante il suo sfregamento. Forse Letizia Frescura proverà ad “alleggerirlo”, alla dignità dell’arrampicata. Si noti che, di contro alla spugna, i contatti garantiti dalla scheda madre portano ad aumentare la temporalità: è il caso della diretta televisiva, per milioni di spettatori da tutto il mondo. Nell’installazione dell’artista, si percepisce che “verdeggi” l’arrampicata, complice l’attaccatura al muro. Certamente lei vuole celebrare gli intagliatori del legno. Loro ravvivano il bosco con un’estetica che non cede al consumismo industriale.
Claudia Sallustio espone dei lavori a penna su carta straccia, denominandoli come Post. Quando andiamo a comprare il pane, raramente alla fine pensiamo di riutilizzarne il sacchetto. L’artista invece vi apprezza in particolare le stropicciature, che avvengono inevitabilmente. Il sacchetto cartaceo del pane è steso sul piano orizzontale, e decorato con finissimi tratti di penna. Questi s’adeguano ai rilievi casuali, “sterzandoli” verso l’astrazione d’una vitalità al minimalismo organico, un po’ come per le cellule al microscopio. A ciascuna “arrampicata” corrisponde uno “scivolamento”. Tutto vibra, vitalisticamente fra inspirazioni ed espirazioni. Un quadro sembra rappresentare la “figura nascosta” d’un pipistrello, avendo l’artista selezionato, prima, una precisa serie di crespe. Ma è valida pure l’immagine dell’osso, in accordo con la qualità da imballaggio che la carta possiede. Altri ancora percepiranno le muffe od i licheni. Questi sanno adattarsi alla durezza delle superfici, con “rimbalzi” perfino ammorbidenti. C’è un quadro che svelerebbe un debito dell’artista verso il connubio fra il cubismo ed il surrealismo. Al centro, percepiamo una “protuberanza” in grado di tritare, o quantomeno d’avvitare (in base a quale superficie ne riceverà il contatto: la prima a destra, la seconda a sinistra). Forse i segni non si percepiscono taglienti, contro la sofficità quasi innocente del pane per vivere.
Gaston Bachelard ci ricorda che l’incisore Albert Flocon si teneva in casa una collezione di nodi, in carta e cartone. Il ripiegamento dei fili, con gli archi di tensione o le volute di stiramento, simbolicamente era lo “strumento” inconscio per i “legami” del pensiero. Visivamente, quello che si snodava sulla sinistra andava per contrasto ad annodarsi verso destra. Proprio nella convinzione di sciogliere i fili, li trovavamo a stringersi sempre di più. La “carezza” del pensiero (la quale “snoda” la materia, percependola in chiave astratta) restava per così dire “strozzata”, dalla sua profondità (base) all’inconscio. Nei quadri di Claudia Sallustio, il surrealismo potrebbe concedersi un sogno dominato dagli istinti “animaleschi”. Il vitalismo cresce al “morso dentato” dei rilievi anneriti, ai limiti della figura. Il sacchetto del pane inavvertitamente subisce l’attacco dello sporco, se bagnato: non solo con l’olio, ma anche per paradosso con l’acqua. L’artista ricorre ad un tipo di carta che parallelamente contraddistingue le lettere vintage. Il titolo Post si riferirebbe all’ansia “stropicciata” che ci prende nel momento in cui adoperiamo un tagliacarte. Questo si percepisce come una “penna alquanto strana”, virtualmente per trascrivere un istinto: di curiosità, desiderio, timore, rassegnazione ecc… Sembra un esistenzialismo po’ vintage, se nella contemporaneità basterà la “freddezza” digitalizzata d’una chat.