LOBODILATTICE

UNA SPIRALE CHE "STROZZA" I CORSI ED I RICORSI PER UNO "SFOLLAMENTO" DELLA STORIA

Alla Biennale di Venezia 2024, presso la sezione dell’Arsenale è esposta un’installazione audio-video di Nazira Karimi, che s’intitola Hafta. Lei nasce in Tagikistan, ma vive in Kazakistan. Più in generale, i territori dell’Asia Centrale fungerebbero da plot artistico per una loro riappropriazione, da parte delle donne, oltre il passato della colonizzazione sovietica. Il filmato Hafta s’intitola così da una parola in lingua tagica, la quale significa < sette > o < settimana >. L’artista ama raccontare il dolore da parte femminile, con le preghiere a lenire i canti funebri. Il documentario è realizzato in presa diretta, senza “inscenarlo”. Ma esso può anche concludersi con una sorta di benedizione in favore di Nazira Karimi. Parallelamente, lei vive una propria storia: di viaggiatrice.

Da una diffusa tradizione dell’Asia Centrale, si sarebbe obbligati a ricordare i nomi di sette antenati (rischiando il maschilismo). Ma a Nazira Karimi non interessano le gerarchie: nemmeno fra le storie da filmare. Per se stessa, lei cerca una discendenza solo al femminile. Dal filmato, dolorosamente si percepisce una disseccazione al massimo da solcare. Nazira Karimi ha intrapreso un lungo viaggio dal Kazakistan al natio Tagikistan, in andata e ritorno, assieme alla madre; ma quest’ultima già fece lo stesso, in passato, sebbene al contrario (dal Kazakistan natio al Tagikistan, in andata e ritorno). La famiglia dunque è costretta a “giostrarsi”: fra le carestie od i conflitti. Nazira Karimi ha sceneggiato una spirale, che “strozza” i corsi ed i ricorsi per uno “sfollamento” della storia. Che sia la madre, o che sia la figlia, nel “solco” d’una tradizione manca la “bandiera” dell’identità. Modernamente, chi si dichiara apolide ci appare più pacifico, dal liberalismo. Questo però non lenisce la sofferenza del profugo “sballottato”. La famiglia di Nazira Karimi s’originò in Kazakistan, da una tribù stanziata lungo il fiume Syr Darya. Questo contrasta una zona desertica, e ha la foce in una piccola porzione del Lago d’Aral. Ma non c’è la stessa sicurezza per il punto di raccolta, come modernamente programma la Protezione Civile, in caso d’emergenza. Il Lago d’Aral sino al 1940 si regolava sui cicli dell’evaporazione naturale, mancandogli il fiume emissario. Poi le autorità sovietiche programmarono di prosciugarlo. Si canalizzarono i fiumi immissari, il Syr Darya e pure l’Amu Darya, favorendo in specie le piantagioni di cotone. Alla fine il Lago d’Aral fu “sfollato” per il 90% delle dimensioni originarie, causando però un disastro ambientale fra i più gravi della storia. I pesci morirono, s’alzò l’escursione termica, si diffusero le polveri tossiche (complice una base militare) ergo le malattie per i cittadini ecc… Il Lago d’Aral oggi si percepisce al “riflesso oscurato” del Mar Caspio (laddove entrambi non si connettono agli oceani). Nazira Karimi a volte ha dovuto immaginare la storia dei propri antenati, mancandole le informazioni d’archivio cui attingere.

A Venezia, lei installa sette monitor, provando a far ondeggiare il corso “appena cronachistico” del viaggio. Simbolicamente, questo sarebbe lo sforzo d’un ricordo, contro i conflitti politici che hanno strumentalizzato, per nazionalismo settario, l’identità: dalla “bandiera” alla “paratia”. L’artista invita al passaggio da una “secchezza” per lo sballottamento ad una “freschezza” per la fluidità. Contro l’incanalamento per < direttissima > da un opportunismo privato, forse si potrà preferire il melting pot senza una “disseccazione” nel < pensiero unico >? Le bandiere non si fissano per l’ingenuità del nazionalismo. Esse sono mosse dall’universalità del vento. Ritorna così una spirale percettiva, grazie all’atmosferologia. Nazira Karimi prova ad aumentare la portata d’acqua: non solo per i fiumi, bensì per gli stessi sentieri. E’ vivificato emotivamente il ricordo per lo sfollamento imposto, affinché le generazioni future capiscano d’evitarlo. L’astrattezza per la folata di vento si materializzerebbe alla propria spirale attraverso una calamita. Non c’entra soltanto lo stelo erboso, dalla steppa. A Venezia, l’allestimento dei sette monitor appare a ferro di cavallo. Sopra c’è la volta a botte per una vecchia cantina, compresa nel Giardino delle Vergini. I ricordi s’aggrovigliano sempre, potendo al massimo riecheggiare. L’artista ha montato la sequenza “oscillante” del documentario con le varie storie in sovrapposizione, garantendo la linearità impercettibile del verso persiano: da destra a sinistra (alla “distorsione” per quello degli Occidentali). Chissà se il ritorno dell’acqua farà ondeggiare anche i pescherecci rovinati dalla ruggine, sul Lago d’Aral… Esiste la “canalizzazione” del cordone ombelicale, il cui prosciugamento tuttavia aiuta la vita. Nazira Karimi lo vorrebbe ricucire, per la sua genealogia. Riprendendo l’acqua, le scritte in sovrimpressione aggiungeranno lo scroscio al flusso, esattamente come accade per la poesia, all’interno del linguaggio quotidiano. Terminata una guerra (P.S. si spera il prima possibile!), s’assiste ad un fenomeno “ambiguamente positivo” di rimpatrio, che appartiene ai recuperanti. Loro avranno la “spirale” del metal detector. Se lo citiamo, è a causa delle navi arenate al Lago d’Aral, sulle quali si finanzia (sia in Kazakistan sia in Uzbekistan) un turismo dal fascino un po’ lugubre. In Medio Oriente, il Mar Morto vanta una salinità talmente elevata da indurre il bagnante giocoforza a galleggiare. Ci piace immaginare che Nazira Karimi se potesse, volentieri camminerebbe sul Syr Darya natio. Lei non viaggia da turista, e nemmeno da recuperante. Il Syr Darya è diventato < il > cammino della vita per un’intera famiglia, da molte generazioni.

Per Seamus Heaney, liricamente il linoleum brilla, ma come i rubinetti d’ottone, ripetendo quindi il servizio di tazze e vassoio in porcellana, ancora non sbreccati. Si può percepire una “luce liquida” alla ritualità per l’ora del tè. Più in generale, una cultura deve adattarsi dolcemente al carattere della singola persona. Nazira Karimi ha ripreso anche le ciotole ed i piatti. Forse la danza può ammortizzare il grido, a parità di concavità, quando si è addolorati. Al bazar il palato porterà l’ottone a degustare, tramite la frutta secca. Le ciotole adattano le cupole agli arbusti, pregando per il “canale” del sorso in una resilienza con la povertà quotidiana. I piatti impreziositi dai motivi floreali “tapperanno” gli scavi per i giacimenti minerari, alla concavità del bassopiano turanico. Ci divertiamo ad immaginare, al montaggio, che il neonato col vagito sia coperto da un velo in pizzo, poi sbreccato sulla “culla a mangiatoia” per il bestiame ruminante. In genere l’Asia Centrale favorisce il nomadismo, dalle sue steppe. Però lo sfollamento a causa della politica è umiliante, peggiorando il pascolo che l’animale istintivamente gradirà.

 

 

 

 

A SPIRAL WHICH “STRANGLES” THE OCCURRENCES AND THE RECURRENCES FOR AN “EVACUATION” OF THE HISTORY

 

 

At the Venice Biennale 2024, at the section of the Arsenale an audio-visual installation of Nazira Karimi is exposed; it is called Hafta. She was born in Tajikistan, but she lives in Kazakhstan. More in general, the territories in Central Asia would function as artistic plot for their reappropriation, by the women, beyond the past with the Soviet colonization. The film Hafta is called in this way from a word in Tajik language, which means < seven > or < week >. The artist loves to tell the pain of the women, with the prayers to allay the dirges. The documentary is realized with live sound, without “staging it”. But it can also end with a sort of benediction in favor of Nazira Karimi. In parallel, she lives an own tale: as a traveller.

From a common tradition in Central Asia, people should be obliged to remember the names of seven forefathers (risking the male chauvinism). But Nazira Karimi is not interested in the hierarchies: neither between the tales that she films. For her own sake, she looks for a lineage only of women. From the film, painfully we perceive a desiccation if anything for its rut. Nazira Karimi embarked on a journey from Kazakhstan to the native Tajikistan, round-trip, together the mother; but the mother already did the same, in the past, although conversely (from the native Kazakhstan to Tajikistan, round-trip). So the family is forced to “juggle”: between the famines or the conflicts. Nazira Karimi scripted a spiral, which “strangles” the occurrences and the recurrences for an “evacuation” of the history. Whether there is the mother or not, whether there is the daughter or not, in the “wake” of tradition the “flag” of the identity is lacking. In a modern way, somebody who declares himself as stateless appears more peaceful to us, from the liberalism. This situation however does not allay the suffering of a “tossed around” refugee. The family of Nazira Karimi originated from Kazakhstan, from a tribe resident along the Syr Darya river. This opposes a desert zone, and has the mouth in a small portion of the Aral Sea. But there is not the same security about an assembly point, as in a modern way for the planning of the Civil Protection, in case of emergency. The Aral Sea until the 1940s was adjusted through the cycles of the natural evaporation, because an emissary there is lacking. Then the Soviet authorities planned its draining. The tributaries, called Syr Darya and Amu Darya, were canalized, favouring especially the cotton plantations. Finally the Aral Sea was “evacuated” for the 90% from the original dimension, but provoking one of the greatest environmental disasters in the history. The fish died, the temperature range increased, the toxic dust (with the complicity of a military base) namely the diseases spread out for the citizens etc… The Aral Sea today is perceived at the “darkened reflection” of the Caspian Sea (because both of them are not connected to the oceans). Nazira Karimi sometimes had to imagine the history of the own forefathers, because she was lacking of informations from an archive, to draw from.

In Venice, she installs seven monitors, trying to allow a fluctuation for the course “only for a chronicle” of the travel. Symbolically, this would be the effort of remembering, against the political conflicts which instrumentalized the identity, for a sectarian nationalism: from the “flag” to the “bulkhead”. The artist invites to a passage from the “dryness” for a tossing and turning to the “freshness” for a fluidity. Against the channelling for the < most direct route > from a private opportunism, perhaps could we prefer the melting pot without a “desiccation” in the < one-sided thinking >? The flags are not fastened for the ingenuousness of a nationalism. Those are moved by the universality of the wind. So a perceptual spiral returns, through an atmospherology. Nazira Karimi tries to increase the water flow rate: not only for the rivers, but also for the “decisive” paths. The memory of the imposed evacuation is enlivened emotionally, in order that the future generations understand its refusal. The abstractness for the gust of wind would be materialized at the own spiral through a magnet. About this, the blade of grass from the steppe is not the only cause. In Venice, the setup of the seven monitors appears in a horseshoe. Above there is the barrel vault for an old cellar, included in the Giardino delle Vergini. The memories always become tangled, able if anything to echo. The artist edited the “swaying” sequence of the documentary with the different tales in overlap, guaranteeing the imperceptible linearity of a Persian line: from right to left (for a “distortion” of the Occidental line). Who knows if the return of the water will allow also the fishing boats, ruined by the rust on the Aral Sea, to fluctuate… A “canalization” for the umbilical cord exists; however its draining helps the life. Nazira Karimi would want to resew that, for her genealogy. Filming the water, the writing overlay will add to the flow a roar, exactly as it happens for the poetry, inside the everyday language. After the conclusion of a war (P.S. we hope as soon as possible!), we are witnessing the phenomenon “ambiguously positive” of a repatriation, which belongs to the scavengers. They will have the “spiral” of a metal detector. We mention this because of the ships beached on the Aral Sea, for which a tourism with a charm a bit lugubrious is financed (both in Kazakhstan and in Uzbekistan). In the Middle East, the Dead Sea praises a salinity so much high that this induces the swimmer inevitably to float. We like imagining that Nazira Karimi gladly would walk on the native Syr Darya, if she could. She does not travel for tourism, and neither as a scavenger. The Syr Darya is become < the > path of life for an entire family, for several generations.

According to Seamus Heaney, lyrically the linoleum shines, but like the brass taps, so repeating the set of cups with the tray in the porcelain, still not chipped. We can perceive a “liquid light” at the rituality for the tea time. More in general, a culture has to adapt sweetly to the character of a single man. Nazira Karimi also filmed the bowls and the plates. Perhaps the dance can cushion the cry, with equal concavity, when we are grieved. In a bazaar the palate will lead the brass to a tasting, through the dried fruit. The bowls adapt the domes to the shrubs, begging from the “canal” of the sip in a resilience with the everyday poverty. The plates embellished by the floral motifs “will plug” the excavations for the mineral deposits, at the concavity of the Turan Depression. We enjoy imagining, for the editing, an infant with a wail covered by a lacy veil, then chipped on a “cradle as manger” for the ruminant cattle. In general the Central Asia favours the nomadism, from its steppes. But the evacuation because of the politics is humiliating, worsening the grazing that an animal instinctively would appreciate.