Il confronto tra Taras e Vatl, città simbolo delle due civiltà protagoniste culturali del Mediterraneo in epoca arcaica: quella etrusca e quella magno greca, la funzione del museo nella postmodernità, l’importanza dell’archeologia e il rapporto con il territorio del museo, inteso come “agorà del XXI” secolo, nella postmodernità. A colloquio con Eva Degl’Innocenti, direttrice del MarTa
La civiltà magnogreca e il mondo etrusco si confrontano all’interno della mostra “Taras e Vatl. Protagonisti del Mediterraneo a confronto. Archeologia di Vetulonia a Taranto”, in corso al MarTa, Museo archeologico nazionale di Taranto. Novità assoluta dell’evento è costituita dall’unicità della ricostruzione, per la prima volta in scala 1:1, del complesso monumentale funerario di Poggio Pelliccia di Vetulonia, in uso tra la metà del VII secolo a.C. e la metà del V sec a.C. La ricostruzione, fondata rigorosamente sul metodo scientifico-archeologico è finalizzata a trasmettere al fruitore le emozioni di una vera e propria esplorazione della tomba a tholos, preceduta dal suo dromos. Ma l’esposizione “Taras e Vatl” è caratterizzata anche dai tesori-reperti dell’oreficeria di Vetulonia, che raccontano dei rapporti, differenze e similitudini tra Taras- Taranto, unica colonia spartana, e Vatl- Vetulonia, le due città protagoniste del Mediterraneo nell’antichità, accomunate dal legame con il mare.
Ma, visto che la politica culturale del museo archeologico di Taranto, come stigmatizza la Direttrice del MarTa, Eva Degl’Innocenti, non è improntata sull’ “adorazione delle ceneri” del passato e si interseca, invece, con la contemporaneità, la scelta della Direttrice e dello staff del museo come materiale per la ricostruzione della tomba a tholos è ricaduta sulla cartapesta. Una decisione, questa, finalizzata alla valorizzazione del patrimonio pugliese, ma anche di quello toscano.
Lobodilattice ha incontrato, in un proficuo e interessante dialogo, la Direttrice del MarTa Eva degli’Innocenti, toccando tematiche quali l’importanza dell’archeologia nella società liquida; la cultura come motore di sviluppo anche economico; il rapporto tra arte contemporanea ed artigianato antico; il museo concepito come modello economico di sviluppo che coinvolge l’industria culturale e creativa, capace di incrementare la Blue Economy e la Green Economy, oltre ad essere inteso come “agorà del XXI secolo”, “progetto di territorio”, attivatore di cittadinanza e centro di ricerca caratterizzato dalla fondamentale funzione educativa; la creazione di un “processo osmotico” tra il MarTa ed il territorio attraverso i laboratori didattici che impiegano le nuove tecnologie, il dialogo con l’imprenditoria locale e le associazioni; l’affermazione del principio in base al quale “con la cultura si mangia”.
La ricostruzione, per la prima volta in scala 1:1 del monumentale complesso funerario etrusco di Poggio Pelliccia di Vetulonia, risalente al VII secolo, costituisce la novità più importante presentata nell’ambito della mostra “Taras e Vatl. Protagonisti del Mediterraneo a confronto. Archeologia di Vetulonia a Taranto”, inaugurata al MarTa lo scorso 23 luglio. Come nasce questo progetto, in collaborazione con Simona Rafanelli, direttrice del Museo Archeologico di Vetulonia?
In realtà la nostra mostra “Taras e Vatl” rientra in un progetto scientifico e culturale più ampio a curatela congiunta, tra il MarTa, quindi tra me e la direttrice del museo “Isidoro Falchi” di Vetulonia, Simona Rafanelli. Insieme abbiamo creato questo progetto in tre atti, di cui fanno parte: “Taras e Vatl”, la mostra che attualmente è allestita al museo “Isidoro Falchi”, ed un convegno internazionale che si svolgerà dal 17 al 19 novembre a Taranto. La mostra di Vetulonia è dedicata al rapporto tra i due importanti centri, Taras e Vatl, quindi da una parte Taranto, la colonia spartana, e dall’altra Vatl, Vetulonia, la famosa città della dodecapoli etrusca, vista nell’ottica del suo rapporto con il mare. La mostra a Vetulonia “Taras e Vatl, dei del mare, fondatori di città. archeologia di Taranto a Vetulonia” è stata inaugurata a giugno, ed è ancora allestita. Invece, per quanto ci riguarda, protagonista della mostra al MarTa è l’archeologia di Vetulonia a Taranto. Questo progetto scientifico e culturale nasce dall’esigenza di un ulteriore approfondimento scientifico, dovuto all’attualità degli studi che si sono susseguiti nel corso degli anni, e che potesse analizzare il dialogo intrecciato tra queste importanti ed antiche civiltà, quindi gli etruschi e la civiltà dell’area della Magna Grecia, tra cui chiaramente Taranto, analizzandole anche nel loro rapporto con tutto il mondo classico e con le popolazioni cosiddette “indigene”. In questo progetto abbiamo deciso di creare un allestimento che fosse particolarmente coinvolgente, il più possibile, basandoci su un rilievo rigoroso da un punto di vista filologico e archeologico, quindi il rilievo di Poggio Pelliccia, oggi complesso funerario non completamente integro (per esempio ha perso la cupola eccetera). Basandoci sui rilievi scientifici, quindi archeologici, abbiamo ricostruito in scala 1:1 - come non era mai stato fatto prima - questo complesso funerario monumentale etrusco di grande importanza all’interno della nostra sala mostre. Abbiamo avuto fortuna, perché, in effetti, la lunghezza del dromos corrispondeva esattamente alla lunghezza della sala, e abbiamo deciso di ricostruire la tomba completamente, sulla base dei rilievi archeologici.
Abbiamo voluto creare, per il visitatore, questo tipo di coinvolgimento, facendolo entrare in questa tomba, come un archeologo, per fargli vivere il processo legato al rituale funerario. I reperti, invece, sono proprio originali, perché sono stati dati in prestito, mentre i letti funerari, che non sono pervenuti fino a noi, sono stati ricostruiti sulla base di confronti rigorosamente scientifici. Ciò che mi stava particolarmente a cuore è che, in questa ricostruzione museografica e quindi di allestimento, si potesse però anche aggiungere un altro elemento importante: quello della tecnica della cartapesta. Che è interessante perché, sempre nell’ottica di un dialogo tra Toscana e Puglia, abbiamo anche questo in comune: l’arte della cartapesta. Per esempio, il Carnevale di Viareggio ha una tradizione ancora più antica di quello della Puglia. Abbiamo quindi deciso di coinvolgere l’architetto toscano Luigi Rafanelli, che peraltro da giovane è stato anche maestro cartapestaio a Viareggio, e le importanti maestranze della cartapesta a tecnica pugliese, che è importante a Putignano, ma anche in provincia di Taranto, a Massafra. L’idea, è stata quella di coinvolgere queste importanti maestranze, includendo nel progetto Nicola Genco che, oltre ad essere maestro cartapestaio di Putignano, utilizzando ancora questa tecnica, è un artista di arte contemporanea, e dall’altra parte la tradizione della cartapesta di Massafra, rappresentata da Pietro Parisi e Mirko Fabbri. L’idea era ovviamente quella di trasmettere l’importanza dell’archeologia del sacro, intanto con le forme architettoniche, quindi la ricostruzione della cupola, sottolineando l’importanza del cerchio, che rappresenta nell’antichità la proiezione della volta celeste sulla terra, poi la camera funeraria, con la pianta dalla forma quadrata, dove c’è il dromos, che invece rappresenta il simbolo della terra.
Abbiamo dunque ricostruito questa sequenza: dal dromos si passa al vestibolo, poi si accede alla camera funeraria, appunto, chiusa. La ricostruzione da al visitatore la possibilità di vivere questa emozione, trasmettendo questa emozione, facendogli comprendere questo itinerario rituale, ripercorrendo insieme al defunto il viaggio che dalla vita va alla morte, va nell’aldilà, con tutta la simbologia rappresentata. Il nostro intento era non solo quello di intraprendere con il visitatore un discorso emozionale o, diciamo, di suggestione, ma a noi interessava, in particolare, dare al fruitore le chiavi di lettura e di comprensione, che soltanto una ricostruzione può conferire, che è ancora più importante, rispetto ad una ricostruzione virtuale. Come avete visto, infatti, abbiamo ricostruito virtualmente il cielo attraverso un videoproiettore, ma il resto è, in realtà, comunicato attraverso la ricostruzione reale. E ci sembrava interessante, anche, realizzare questo progetto, che è un vero e proprio progetto proprio scientifico e di ricerca, anche per quanto riguarda l’allestimento, perché ritengo che sia veramente importante associare sempre di più, nella museografia archeologica, l’utilizzo della tecnica della cartapesta, adoperata non nella ricostruzione del tumulo, ma anche nel busto, sistemato in una vetrina in cui abbiamo esposto le oreficerie.
L’artista Nicola Genco ha simulato il busto ispirandosi anche ai tratti somatici, ma quello che risulta interessante, è l’aver esposto l’oreficeria ponendola esattamente nel suo contesto: per esempio il ferma-trecce o la tomba infantile che è stata ricostruita ricollocando i reperti. Fondamentale è stata dunque, la ricostruzione del contesto, a cui noi archeologi teniamo molto.
Cosa emerge dal confronto tra Taras, l’unica colonia spartana e Vatl, le due città simbolo, rispettivamente, della civiltà magno-greca ed etrusca?
Emergono delle similitudini ma anche, in realtà, dei caratteri molto diversi tra loro: quello che noi volevamo mettere in luce era un rapporto, un dialogo, costituito da similitudini ma anche da differenze. Ci premeva mettere in relazione, inoltre, l’ampiezza delle relazioni culturali e commerciali che facevano capo a questi due grandi centri: un fattore importante, questo. Infatti, come avete visto, vi sono anche i reperti che provengono da tutti i vari luoghi del bacino del Mediterraneo, compresi quelli più esotici, che sono importanti. Dunque, ci interessava mettere in luce che si tratta di civiltà protagoniste del Mediterraneo, poste però a confronto anche nelle loro differenze.
La visita della tomba a tholos etrusca ricostruita, che si raggiunge attraverso il lungo dromos, il corridoio d’accesso, e in cui sono presenti questi straordinari reperti, formati da oggetti di corredo, provenienti dal sito del territorio di Vetulonia, avviene nella semi-oscurità, che rievoca l’illuminazione delle torce..
Si. Tornando al discorso del rapporto tra la civiltà etrusca e quella magno-greca, vi sono anche delle similitudini, per esempio il rapporto sia degli Etruschi che della Magna Grecia con l’area greco-orientale, il rapporto con la ceramica attica, la simbologia funeraria, che rappresenta anche l’ideologia aristocratica del consumo del vino, per esempio con i rituali legati al simposio, caratteristici dei Greci di epoca arcaica (perché siamo comunque in epoca arcaica). Interessante è, poi, l’oreficeria etrusca, che arriva in questo territorio, e la sua diffusione.
Secondo lei, che rapporto c’è tra l’artigianato artistico antico e l’arte contemporanea?
Per noi è molto importante perché, nel piano strategico del museo, che è stato nominato “museo ad autonomia speciale”, anche per il suo progetto scientifico e culturale, la nostra politica culturale si basa non su una visione passatista dell’archeologia, ma su un dialogo sempre presente con la contemporaneità, in rapporto con la società di oggi e con la sua evoluzione. Il rapporto esiste perché è un rapporto importante: lo vediamo anche nelle tecniche, lo vediamo nel design. Se guardiamo anche l’oreficeria e i famosi ori di Taranto, notiamo che sono di grande contemporaneità, tant’è che alcune griffe di cui non faccio i nomi si ispirano a loro, sia come disegno ma anche nella tecnica. Tecnica che, in effetti, c’è ancora oggi, infatti, da alcuni anni abbiamo intrapreso un progetto di ricerca, sempre in corso, con l’Università del Salento e con il Ceda, sull’analisi degli ori di Taranto. La maggior parte delle oreficerie tarantine presentano un quantitativo di oro vicino al 100%: l’oro più è puro, più è volatile, e questo determina anche delle complessità. Io credo molto nel rapporto tra artigianato artistico antico e arte contemporanea, perché, come vediamo, c’è un’evoluzione delle tecniche. L’artigianato, però, è molto più simile al passato, per fortuna, quindi crediamo anche nella sua differenziazione. Come dicevo prima, abbiamo il FabLab, laboratorio artigianato teatrale creativo digitale che, per esempio, non crea concorrenza all’artigianato più tradizionale, ma è complementare. Anzi, si possono realizzare dei prodotti che utilizzano i know how in entrambe le competenze, quindi noi ci crediamo molto. Ecco perché stiamo lavorando ad un progetto di cui ancora non posso svelare oltre, però glielo dico in anteprima: stiamo lavorando con il Distretto Orafo Tarantino. Il MarTa farà parte del progetto ma non è l’unico partner, anche se è il più scientifico-culturale. Per me e per tutti noi è molto importante il fatto che l’artigianato orafo non rimanga solo una reminescenza, una memoria del passato, ma che questo possa servire da base per un’industria culturale creativa che deve continuare, anche con le sue differenze, quindi mi riferisco anche ad una reinterpretazione del design, che non debba essere una mera riproduzione o replica, anche se anche quello è importante. Dunque c’è questo disegno che speriamo possa andare avanti, oltre noi, perché alla fine coinvolge partner e stakeholder importanti nell’ambito economico.
Una domanda un po’ più storica, visto che lei è un’archeologa: Taranto, unica colonia spartana, definita “capitale della Magna Grecia”: qual era il suo rapporto con Sparta, soprattutto a livello artistico?
“Capitale della Magna Grecia” è una definizione che io eliminerei perché Taranto non lo è stata. E’ stata uno dei centri più importanti, dunque possiamo dire che Taranto è stata “capitale culturale” del Mediterraneo occidentale, però più fra IV secolo a.C. e il periodo ellenistico, nel III secolo a.C. I rapporti tra Taranto e Sparta sono sempre stati importanti: erano rapporti, intanto, che consistevano nella circolazione di merci, di idee, di cultura. Questo lo vediamo anche nel numero e nella quantità di ceramica laconica presente nelle nostre collezioni e nei contesti funerari tarantini. Nell’ambito della ceramica laconica, per esempio, è importante l’opera del pittore della coppa dei pesci: le due kylikes che sono al secondo piano, e quella caratterizzata da raffigurazioni di pesci, tonni, delfini e triglie, è stata definita dagli studiosi come “il più bello dei vasi laconici esistenti”, e siamo nel VI secolo a.C. Tra l’altro quel pezzo è un unicum, e testimonia il rapporto con l’ideologia funeraria e con l’artigianato. Poi, sicuramente, vi erano, tra Taranto e Sparta, affinità nella lingua, attraverso la lingua dorica, anche se purtroppo non ne rimangono attestazioni importanti. Poi vi erano affinità anche nella ritualità.
Non solo nel rituale funerario ma anche rituale in generale..
Si, anche nelle feste, nelle festività che erano importanti e legate tra loro, oppure vi erano affinità sul mondo delle divinità, alcune delle quali assumevano maggiore importanza rispetto ad altre: pensiamo, ad esempio, al culto di Castore e Polluce, che erano molto importanti per il mondo laconico, per il mondo spartano. Vi sono, a questo proposito, attestazioni di santuari importanti, anche nell’iconografia. Interessante è, poi, la continuità del culto di Castore e Polluce nel Medioevo, attraverso il culto dei Santi Cosmo e Damiano, i Santi Medici. Inoltre, Castore e Polluce sono spesso legati ai santuari, anche marittimi, quindi erano considerati, protettori dei naviganti, oltre che sotères, salvatori, come notiamo anche dalla simbologia.
Un’altra domanda, sempre inerente alla sua essenza di archeologa: nell’epoca attuale della società liquida, come è stata definita da Bauman - sulla quale ha riflettuto anche Baudrillard, parlando di Iperrealtà, dunque di eliminazione del reale attraverso la realtà virtuale e le immagini multimediali - che valore assume, oggi, nella postmodernità, l’archeologia?
L’archeologia ha un valore importantissimo perché, intanto, ci aiuta a conoscere gli uomini e le donne che ci hanno preceduto, determinando quindi un legame identitario con il nostro passato. Come diceva il mio grande maestro Riccardo Francovich, purtroppo deceduto qualche anno fa: “l’archeologia ci serve a comprendere, a conoscere il nostro passato per conoscere il nostro presente e per costruire il nostro futuro”. E, secondo me, in una frase breve è riassunto veramente il significato dell’archeologia. Pensiamo anche all’archeologia dei paesaggi culturali, con un approccio di studio storico-antropologico, quindi pensiamo non ad un’archeologia che sia solo storia dell’arte antica ma ad uno studio anche storico-antropologico delle culture, delle civiltà che ci hanno preceduto e che ci può insegnare molto. Pensiamo poi anche alla cultura materiale, quindi allo studio degli oggetti: l’archeologia della produzione, delle tecniche, lo dicevamo prima, ci permette anche di conoscere aspetti che la storia scritta non ci dà completamente, come, per esempio, alla conoscenza delle fasce più umili della società. Sappiamo bene che, spesso, le fonti scritte ci documentano fatti riguardanti determinati ceti della società. L’archeologia, anche attraverso un oggetto semplice, uno scheletro, per esempio, e, in questo caso, lo studio antropologico, ci permette di ricostruire ancora meglio e di dare dignità anche alle persone più umili della società, grazie a ritrovamenti-rinvenimenti che spesso non vengono trattati dalle fonti ufficiali. Pensiamo anche all’antropologia fisica, allo studio delle malattie, la paleopatologia, allo studio del rituale. Pensiamo a come l’archeologia ci possa aiutare con le sue rivelazioni. Insomma, è importante un’archeologia delle idee. L’archeologia è quindi alla base della nostra società: pensiamo per esempio a quello che è stato l’apporto della cultura romana all’ingegneria, al diritto. Anche in questo caso vi sono fonti scritte ma anche fonti archeologiche, fonti epigrafiche, editti, regolamenti, etc.etc. Poi l’architettura, l’ingegneria, la progettazione degli acquedotti: tutti studi e innovazioni che sono alla base della società contemporanea e costituiscono quelle basi solide che ci permettono anche di continuare a vivere. Soltanto una società che non ha conoscenza del proprio passato è una società che non ha futuro.
E che non ha identità
E direi a maggior ragione per questo contesto territoriale. Ecco perché noi abbiamo scelto come pay off del museo: “Past for Future”, che è anche alla base del nostro logo. Abbiamo scelto l’inglese, chiaramente, per una maggiore semplicità: in effetti, la lingua inglese è più sintetica. Poi siamo anche museo internazionale, per fortuna: il “passato per il futuro” è un concetto che per noi ha davvero un valore importante, e non è un passato inteso come adorazione delle ceneri o un passato troppo lontano, ma è un passato che deve dialogare. Non è semplice, anche perché sicuramente concepire un museo come motore di sviluppo di una società attuale attraverso il passato non è semplice, perché ci mette in crisi, perché è problematico, perché non è sempre politically correct, per esempio, o perché vi sono delle tematiche del passato che sono anche attuali. Bisogna però sempre avere una visione contemporanea e non ripensare al passato semplicemente come una reminescenza, o, ripeto, come un’adorazione delle ceneri. Ci vuole un grande sforzo anche nel capire che non ci può essere solo un ruolo passivo del visitatore: il museo deve essere anche un attivatore di cittadinanza attiva.
Esatto, questo è un concetto fondamentale che emerge da come è concepita la politica del museo, per esempio, io ho letto di una bella iniziativa che avete realizzato pochi giorni fa sul concetto di bellezza e di cura del corpo della donna in epoca greco-romana, attraverso l’uso di gioielli, calzature, cosmesi ed è stato il fulcro tematico dell’incontro con la creator Noemi Tarantini e del funzionario archeologo del MarTa Lorenzo Mancini. Com’è cambiata nel tempo - visto che la direzione è di una donna al MarTa, che è una cosa importantissima - non solo il concetto di bellezza della donna, ma proprio il ruolo della donna, perché ovviamente sappiamo che nell’antica Grecia la donna non aveva un ruolo attivo a livello politico?
Le fonti ci dicono, intanto, che la donna magno-greca era più emancipata di quella della madrepatria, quindi ci sono anche delle testimonianze, per esempio sulle donne di Locri, di un ruolo importante della donna: c’era una maggiore emancipazione, così come vediamo, per esempio, anche nelle fonti scritte, nelle fonti archivistiche, anche della stessa Taranto, dove ci sono attestazioni, anche nel Medioevo, di donne imprenditrici, che erano proprietarie, appunto, di atelier, di luoghi di produzione. Del resto l’archeologia ci dice che in età romana, tante donne erano proprietarie di fornaci, di laterizi, di magioni. Chiaro che, per fortuna, il ruolo della donna si è sempre più evoluto nel corso del tempo. Siamo comunque ancora lontani da un’emancipazione completa: c’è ancora molto maschilismo, questo sicuramente, anche nel nostro Paese, ma non solo, quindi per la donna la situazione non è semplice. Un uomo, nel ruolo di dirigente, sicuramente è maggiormente facilitato rispetto ad una donna, anche se nel nostro Ministero, per fortuna, le donne sono in maggioranza. Però una donna ha necessità di dimostrare maggior impegno, maggiori energie, per gestire la reazione che c’è all’esterno e per farsi accettare in un ruolo di autorevolezza, quindi, sicuramente le viene richiesto molto più lavoro rispetto a un uomo.. questo si, bisogna dirlo. Soprattutto quando si ha un’età che nel resto d’Europa è concepita come un’età normale: io a 39 anni – perché oggi sono stata superata – sono stata la prima donna dirigente di un museo in Italia. Questo faceva sorridere perché, provenendo dalla Francia - dove all’epoca lavoravo e dove è normale arrivare a ruoli di dirigenza molto prima per le donne - sapevo che non c’è niente di strano nella dirigenza di una donna, per giunta giovane. E’ normale, infatti, che non si debba per forza avere un’età prossima alla pensione per avere dei ruoli dirigenziali. Oggi, però, a questo proposito, c’è un cambiamento in positivo. All’inizio, invece, vi era una sorta di diffidenza in quanto ritenuta troppo giovane, e poi una donna. Ma attualmente è tutto cambiato.
A proposito della sua gestione del MarTa vi sono una miriade di attività importantissime, per esempio i laboratori del MartaLab, laboratori, appunto, a distanza, che includono l’uso delle nuove tecnologie, coinvolgendo i ragazzi in modo creativo e che utilizzano le nuove tecnologie; vi è anche una sinergia tra il MarTa e il mondo musicale con la partecipazione del museo al Medimex, oppure numerosi incontri e collaborazioni importanti: un’esplosione di attività che toccano più livelli, più ambiti: un vulcano di idee che trasmette entusiasmo. Come riesce a gestire tutte queste attività?
Intanto tutto questo è frutto di un lavoro di squadra, da parte di tutto lo staff del museo, quindi è un lavoro collettivo, non individuale. E’ merito di un lavoro di squadra, di tutto lo staff che investe tante energie, passione ed entusiasmo oltrechè, ovviamente, competenze. Ed è la prima cosa per questo progetto comune: il lavoro di squadra, di co-progettazione con il territorio, che ha risposto da subito in modo molto positivo. Quindi noi facciamo co-progettazione basata su qualità, su standard elevati, per lavorare insieme al territorio. Tutti i progetti e le iniziative sono dunque stati possibili grazie a questo, e noi ci teniamo molto, perché il museo è un centro di educazione e ricerca. Si fa ricerca, si fa studio, questo è importantissimo. C’è comunque l’elemento scientifico che è fondamentale per noi: è la base dell’educazione, e la funzione educativa del museo è la funzione più importante, primaria, è il suo valore fondante. Quindi abbiamo protocolli d’intesa con istituti scolastici, abbiamo protocolli, convenzioni con atenei, centri di ricerca sia italiani che stranieri, abbiamo tutti i protocolli d’intesa con l’associazionismo del territorio, che secondo noi è fondamentale e con gli stakeholder economici, perché, ripeto, la cultura è un motore di sviluppo anche economico, per fortuna, quindi “con la cultura si mangia”. Siamo dunque anche forza lavoro, perché siamo una stazione appaltata, visto che il museo è stato incluso tra i primi 20 musei ad autonomia speciale, quindi noi abbiamo un’autonomia di bilancio, ma facciamo noi stessi le nostre gare d’appalto. Grazie a dei finanziamenti - tra i quali, i fondi europei del PON Cultura e Sviluppo, che ci hanno permesso di creare il progetto MarTa 3.0, di cui fa parte il FabLab ed il MartaLab - abbiamo fatto numerose gare d’appalto che hanno permesso alle società di contrattualizzare professionisti, anche giovani, equipe di archeologi e di informatici, architetti, ingegneri, esperti di comunicazione, di marketing, social media manager. Quindi, questo lo possiamo dire, il museo ha creato forza-lavoro attraverso collaborazioni a contratto e con società che forniscono anche servizi. Quindi, comunque, il lavoro lo abbiamo creato. E questo è importante, ecco perché dico: “Con la cultura si mangia”.
Ci spiega nel dettaglio cos’è il FabLab?
Il FabLab è gestito da giovani esperti di robotica e di utilizzo delle nuove tecnologie, da archeologi, da mediatori culturali, ed è stato creato a fini di ricerca, di educazione, ma anche di vendita, con il merchandising da loro prodotto, dal quale noi, come museo, ricaviamo dei margini di guadagno che reinvestiamo sempre, perché il nostro fatturato è la cultura che trasmettiamo, quindi facciamo ricerca e formazione grazie alla produzione. Questa (nella foto) è la linea di merchandising più economica, realizzata in plastica ecologica, una plastica che non inquina e che si produce con queste macchine. Viene prima fatto un rilievo 3D del pezzo, del reperto archeologico, poi, con una di queste macchine, si produce l’oggetto. Gli oggetti che avete visto nel percorso sono stati tutti riprodotti digitalmente per creare gadgets che siano di creative design, non solo mere riproduzioni, utilizzando vari tipi di materiali, da quello più economico alle sperimentazioni – visto che abbiamo un progetto di ricerca insieme al Politecnico di Bari - l’argilla, la ceramica. Quindi facciamo ricerca e per noi l’approccio scientifico è molto importante. Poi stiamo realizzando dieci postazioni tattili, multisensoriali, per tutti i tipi di pubblico, rendendo il FabLab accessibile a tutti, quindi anche ai non vedenti e ai sordi. Inoltre vi è il grande schermo da cui gli studenti fanno anche e-learning, didattica a distanza.
Che in tempo di pandemia sono utili…
Si, sono stati molto utili perché noi abbiamo fatto con loro tutte le attività a distanza, che sono state seguitissime. Poi è importante lavorare con l’industria culturale e creativa, quindi l’obiettivo è quello di creare un processo osmotico nei confronti del territorio: è importante non rimanere chiusi in se stessi ma creare della formazione e trasmettere proprio un know-how affinchè, su questa realtà territoriale, comincino a nascere più imprese locali. Dunque è importante la creazione di un modello di sviluppo, infatti siamo sempre in contatto con imprenditori del territorio per scambiare idee e collaborare.
E dovrebbe essere così per tutti i musei, nel senso che è tutto questo è davvero esplosivo, perché non è stato fatto questo finora…
No, perché il MarTa è l’unico museo nazionale italiano. C’è un FabLab a Trento, in un museo provinciale che però è di Storia naturale. Tra l’altro il MarTa è l’unico museo archeologico, e si rifà a tutti i principi dei FabLab internazionali che sono esistiti ed a un protocollo internazionale che ha creato il MIT negli Stati Uniti, seguito fedelmente. Quindi, anche a tal proposito, il mio augurio è che questa non rimanga un’esperienza solo nostra, ma che, in raccordo con il territorio, il museo diventi una sorta di vivaio: per noi è importante il discorso dell’incubatore di idee che vengono condivise, e che poi questo processo di lavoro collettivo si allarghi.
Il MarTa è stato premiato da TripAdvisor come una tra le migliori attrazioni al mondo, e il Sindaco Melucci ha definito orgogliosamente il MarTa come patrimonio condiviso dell’intera città. Poi, a Ferragosto, il museo archeologico ha registrato un boom di presenze, anche straniere. Insomma, ricollegandoci al discorso sulle politiche culturali, lei pensa che la cultura possa addirittura arrivare, se gestita bene, a far dimenticare la realtà drammatica con cui Taranto viene vista, a causa della presenza dell’Ilva?
Secondo me si. Intanto il problema fondamentale quando, all’inizio, abbiamo fatto delle analisi SWOT, che si svolgono anche nelle analisi aziendali, per capire quali sono i punti di forza e di debolezza sia interna che esterna del museo e per poter poi elaborare il piano strategico - un grande punto di debolezza esterno, quindi una minaccia, era sicuramente questa immagine di Taranto molto negativa all’esterno. Invece è stato fatto un lavoro, ripeto, collegiale e collettivo con il territorio, anche con l’amministrazione comunale di cui sottolineo il grande dinamismo. L’amministrazione comunale attuale, infatti, si sta impegnando molto per una rinascita di Taranto, intraprendendo un lungo lavoro finalizzato a positivizzare l’immagine di Taranto all’esterno. Io credo fermamente che un modello di sviluppo, per il momento perlomeno complementare, possa esistere oggi, e che questo si debba basare sulla cultura, dunque in particolar modo sull’industria culturale e creativa e sulla Blue Economy, perché Taranto ha addirittura due mari. L’idea è, appunto, quella di sviluppare tale ambito ancora di più, perché, paradossalmente, oggi tutto sta cambiando, ma Taranto, in passato, era diventata una città “sul” mare, più che una città “di” mare. Bisogna quindi sottolineare l’importanza di queste attività. In realtà, il fatto che ci siano ancora i pescatori, per esempio, è molto importante, perché sono pochissimi in Italia i mestieri antichi come la pesca, che oggi vengono realmente vissuti e che non sono solo reminiscenze, attività pittoresche o per turisti, ma sono attività reali, che secondo me vanno salvaguardate. Importante è anche la Blue Economy relativa anche all’ecologia, quindi all’ecosostenibilità, ma anche la Green Economy, con tutta quella filiera legata al biologico, ad un impatto ecosostenibile ambientale.
Pensiamo, per esempio, che il Golfo di Taranto è davvero importantissimo, proprio come biodiversità. Per esempio, c’è la colonia di cavallucci marini, una colonia di delfini tra le più importanti del Mediterraneo, ci sono vari elementi in libertà, che non sono, diciamo, “in vasca”, ma “in mare aperto”. Sono elementi importanti, con la biodiversità della Circummarpiccolo, caratterizzata da tutta la flora e la fauna che sono di grande interesse. Dunque, i presupposti per cambiare il paradigma ci sono. La cosa importante che servirà è che non si faccia un progetto di territorio di breve durata, ma un progetto che abbia delle ricadute anche a lungo termine, perché è solo così che si può cambiare il paradigma. E mi auguro che si possa arrivare a questo, indipendentemente da quelli che saranno i miei successori. Mi auguro che si possa avere un impatto veramente importante, storico su questa città.
…Che è la più bella d’Italia, ma io sono campanilista
No, è vero, anche per dare un futuro ai giovani, per non farli più partire senza tornare…
Ho letto che il MarTa è presente anche nell’edizione speciale del Salone Internazionale del Restauro alla Fiera del Levante di Bari con la relazione “Le mille vite dei reperti di un contesto archeologico tarantino. Dall’oblio alla pubblica fruizione”, che verte sul recupero e restauro dei tesori presenti dal 1968 nei depositi del Museo archeologico: vi sono reperti di grande interesse, tra i quali i materiali dell’ipogeo “Genoviva”, una delle più importanti tombe a camera tarantine del periodo tardo-classico/alto-ellenistico, che saranno presto restituiti alla pubblica fruizione. Ci parla di questa iniziativa?
Si, abbiamo presentato questa iniziativa il primo settembre, al Salone Internazionale del Restauro alla Fiera del Levante, che per la prima volta è stato organizzato a Bari, perché questa manifestazione si svolge sempre a Ferrara, quindi stavolta era in trasferta. E abbiamo presentato, per la prima volta in anteprima, insieme alla funzionaria archeologa Sara Airò, e alla restauratrice Alessandra de Matteis - che ha concluso il suo ciclo di studi presso l’Accademia delle Belle Arti di Napoli - il risultato della tesi specialistica di quest’ultima. Negli anni ’60 fu rinvenuto, a Taranto, in via Polibio 75, una tomba in questo complesso monumentale, un’importante tomba a camera che venne chiamata convenzionalmente “Ipogeo Genoviva”, nome tratto dalla famiglia a cui apparteneva il terreno. E si tratta di reperti importanti relativi alla tomba, risalenti attorno al 330 a.C. fino al III secolo a.C.: circa 220 frammenti, fra materiale ceramico, lapideo, metallico, e che, appunto, Alessandra De Matteis ha provveduto poi a restaurare. Si tratta di tesori mai visti, pubblicati già alla fine degli anni ’90 ma parzialmente, mentre noi stiamo finalizzando l’edizione scientifica del materiale, e, soprattutto la sua restituzione alla pubblica fruizione, perché esso farà parte del nuovo allestimento che vedrà la luce entro il prossimo anno. Quindi stiamo lavorando ad un nuovo allestimento che andrà a restituire quei reperti del MarTa, in gran parte inediti e mai visti. E anche questa tomba - che, come tante tombe tarantine ha subito fenomeni post-deposizionali, come infiltrazioni dall’alto di reperti successivi – ha subito un collasso alla struttura, proprio durante l’allestimento. Dunque abbiamo progettato una vetrina che presenterà i reperti più recenti sospesi, per far comprendere, anche ai non addetti ai lavori - oltre all’impatto visivo che sarà molto suggestivo - questo fenomeno post-deposizionale che altrimenti è difficile da spiegare. Stiamo quindi lavorando alacremente per potere, il prossimo anno, restituire tutto al pubblico. Inoltre, questo progetto museografico è innovativo perchè prevede anche contenuti di intelligenza artificiale e di realtà virtuale aumentata.
Dopo sei anni di direzione al MarTa, è felice di aver scelto di realizzare un sogno, nonostante i rischi e le incognite?
Si, sicuramente se tornassi indietro rifarei questa esperienza che, al tempo in cui la intrapresi era un grande punto interrogativo. Tra l’altro io ho lasciato, come si suol dire, un “posto fisso”, in Francia per realizzare questo sogno che io ho concepito come una missione di vita. Quindi si, siamo andati oltre rispetto alle aspettative iniziali, se penso alla realtà da cui siamo partiti, in un museo neonato per quanto riguarda la struttura gestionale. Ma è stato fatto tanto lavoro dalle Soprintendenze: il merito va al loro per quanto riguarda l’allestimento che abbiamo oggi e ringrazio tutti i colleghi per il grande lavoro che è stato fatto prima di me. Questo museo esiste dalla fine dell’800 e ha avuto questo cantiere di 18 anni che è stato riallestito, ma il fattore importante è che il museo ad Autonomia speciale è iniziato con noi, perché siamo stati i primi, insieme ad altri 19, e questo ha posto anche delle problematiche iniziali, perché la riforma dei musei è partita con tutti noi. Oggi ci possiamo definire soddisfatti, anche se il cammino c’è ancora davanti a noi: dobbiamo continuare il nostro progetto, che non è ancora concluso. Per noi, così come l’abbiamo concepito, il museo fa parte di un progetto di territorio, ecco perché mi piace sempre definire il museo “un’agorà del XXI secolo”, a maggior ragione il MarTa. In quest’ottica, ricollegandoci agli argomenti trattati prima nel discorso, rientra anche l’arte contemporanea e tutta la stagione dedicata all’arte contemporanea, quindi le mostre che abbiamo fatto all’interno del Circuito del Contemporaneo, come quella di Caludia Giannuli, che si è conclusa a luglio. Poi presenteremo la mostra del sound artist Piero Mottola, adesso abbiamo anche vinto il PAC, il bando di arte contemporanea del nostro Ministero, con un’opera di committenza del MarTa realizzata da Federico Gori, che presenta “L’Età dell’Oro”, ispirata agli ori di Taranto. L’artista rappresenta la sua visione di un ritorno dell’Età dell’Oro, che risulta particolarmente importante in un’ottica di post-Covid e che ci auguriamo possa avvenire.
Museo Archeologico Nazionale di Taranto MArTA (beniculturali.it)
Cecilia Pavone