Bone Deep, Suns Speak
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Bone Deep, Suns Speak
Comunicato
Per la prima personale alla MAAB Gallery, Benjamin Cohen (Regno Unito, 1986), presenta una serie di lavori recenti che facendo dialogare immagini e oggetti anche lontanissimi tra di loro, evidenzia come nella ricerca del giovane artista britannico il tempo e lo spazio facciano da ponte tra passato e futuro, tra memorie personali e archetipi collettivi, tra inconscio, linguaggi ed usi contemporanei.
Il titolo della mostra allude a qualcosa che fa parte di noi fin dentro alle ossa stesse, ma che si scopre anche connesso agli estremi a noi più lontani come il sole e le stelle, se si presta attenzione a quella teoria secondo cui il calcio ed altri minerali presenti nelle ossa umane derivano dall’esplosione di una supernova avvenuta diversi milioni di anni fa. È così che gli oggetti in mostra subiscono una vera e propria riconfigurazione: partendo da forme familiari, la forma e la struttura vengono alterate, rimandando da una parte agli oggetti della vita quotidiana, ma aprendosi dall’altra a un’alterità che li rende al tempo stesso domestici ed inquietanti. Le opere di Cohen sono portali tra i tempi della storia e le narrazioni umane, con i loro desideri, paure ed ossessioni.
Non si tratta di assemblages neo-dadaisti o di gioco associativo surrealista. Gli oggetti sono pensati e presentati non come sommatoria di parti diverse, ma come un’unica configurazione, la cui nettissima rifinitura formale fa pensare a prodotti di un industrial design futuribile ed estremo. Quest’apparenza levigata, scintillante, accattivante sia nelle forme che nei colori (come in una palette pittorica cangiante, metallica e vagamente sulfurea), si compone anche di un risvolto sottilmente paradossale e sospetto, talvolta apertamente sinistro, altre volte ambiguamente sfuggente. Lo si nota ad esempio in certi dettagli delle opere: due pezzi di salmone affumicato ai piedi di un telaio per paraurti cromato, il calco di un becco d’anatra di una maschera carnevalesca, innocuo e beffardo al tempo stesso, impilato a pavimento o nascosto dentro una gabbia per uccelli o una piramide tronca riempita di bombolette usate di protossido di azoto, quel gas usato come anestetico generale in medicina, ma anche come droga euforizzante a basso costo, sorta di prototipo per un monumento del disagio sociale e dell’allucinazione.
In questo modo Benjamin Cohen passa dalla creazione alla ricreazione, cita lo sviluppo tecnologico e ricollega il passato remoto con il presente attraverso uno sguardo sul futuro. In questo modo Cohen reagisce all’omologazione rivendicando un’identità che è prima di tutto quella individuale, con le sue radici profonde come ossa collegate al suo vissuto personale, anche drammatico, ma è anche l’identità di un mondo transculturale e transnazionale in cui il tempo e la storia umana collassano l’uno sull’altra.
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