LOBODILATTICE

LIMEN

Inaugura

Sabato, 25 Gennaio, 2020 - 19:30

Presso

Spazio Espositivo EContemporary
via Crispi, 28 - Trieste

A cura di

Elena Cantori e Massimiliano Schiozzi

Partecipa

Deborah Napolitano Vincenzo Ruocco Silvia Sanna

Fino a

Martedì, 18 Febbraio, 2020 - 19:30

LIMEN

Comunicato

Nel 1874 Joseph Glidden depositò il brevetto per “due fili di ferro e di una serie di spine”: è la nascita del filo spinato, uno dei simboli più forti della costrizione, del controllo, del limite imposto. Tre artisti attraverso la fotografia, la pittura e la scultura hanno affrontato i mondi, i corpi, le idee e i desideri che il filo ha segnato e continua a ferire.

Sabato 25 gennaio 2020 una doppia inaugurazione per Limen, la mostra nata da un’idea di Massimiliano Schiozzi ed Elena Cantori:
la prima inaugurazione si svolgerà alle ore 18.00 al Cavò, in via San Rocco, 1 e sarà dedicata ai lavori della giovane fotografa Sivia Sanna mentre da EContemporary, in via Crispi 28, alle ore 19.30 si darà avvio alla mostra dedicata alla scultrice Deborah Napolitano e al pittore Vincenzo Ruocco.

Limen nasce dalla riflessione di quanto ancora oggi i confini in ambito geografico, politico, sociale e religioso siano radicati nonostante si faccia di tutto per eliminarli e l’oggetto che meglio rappresenta questo limite imposto è il filo spinato che diventa il filo conduttore del progetto che coinvolgendo tre artisti e due gallerie, non a caso viene inaugurato simbolicamente a ridosso della Giornata Internazionale della Memoria.
Scrive Oliver Razac nel suo Storia politica del filo spinato (2017):
«subito si è mostrato uno strumento politico di grande rilevanza, la cui efficacia gli ha garantito un ruolo di primo piano in tre delle maggiori catastrofi della modernità. Negli Stati Uniti ha contribuito alla colonizzazione delle praterie del West e dunque all’ultima tappa dell’etnocidio degli Indiani d’America. Nel corso della Prima Guerra mondiale ha fortificato le trincee, dove sono morti milioni di uomini. Infine, è stato la recinzione elettrificata dei campi di concentramento e di sterminio nazisti. Ma la sua storia non finisce lì. Il filo spinato ha continuato a essere largamente utilizzato quasi ovunque: attorno ai campi e ai pascoli in campagna; in città, sui muri o sui cancelli delle fabbriche, delle caserme, delle prigioni e delle abitazioni di famiglie preoccupate. Ma anche lungo le frontiere nazionali, sui campi di battaglia o per sorvegliare uomini da far sopravvivere, da rispedire ai loro paesi, da uccidere… Tuttavia, il fatto che continui ad avere successo non significa che sia ancora il punto tecnologicamente più avanzato di gestione dello spazio. La tendenza attuale è di chiudere, gerarchizzare e controllare lo spazio con altri mezzi ben più sofisticati, ancora più leggeri e reattivi. Ma è poi così nuova questa tendenza? Contrariamente alla percezione che se ne ha, il filo spinato corrispondeva già a un allontanamento dalla pesante materialità della pietra, a una virtualizzazione delle separazioni massicce. Si trattava già di perdere in consistenza per guadagnare in potenza. Ma, in questo modo, annunciava il proprio superamento, il tempo in cui anch’esso sarebbe stato troppo vistoso e pesante, e avrebbe dovuto essere sostituito da tecniche più leggere, da dispositivi più discreti, che tracciano confini immateriali: non di legno, non di pietra né di metallo, ma di luce, onde e vibrazioni invisibili».
Ed è su questi concetti che i tre artisti hanno basato il loro lavoro creando un percorso artistico in cui si intrecciano fotografia, pittura e scultura, creando un’estetica contemporanea sul concetto di confine, di limite.

Le fotografie concettuali dell’artista sarda Silvia Sanna propongono un dialogo tra il corpo della stessa artista e il filo spinato. Il corpo che diventa una linea di confine appunto un limen. Il filo, con le sue evidenti spine, non solo percorre il corpo lungo la silhouette ma anche penetra e lega parti di esso.

Deborah Napolitano, architetto e scultrice salernitana, declina il tema usando la calda terracotta e il freddo ferro per una ricerca che unisce l’arte concettuale ad un estetismo rigorosamente minimalista e altamente contemporaneo, lasciando al fruitore la possibilità di riflettere trovando nelle opere non solo dolore, ma anche uno spiraglio di libertà.
Vincenzo Ruocco, salernitano, nella sua pittura riesce a trattare la gravità di questo tema con leggerezza utilizzando tratti evanescenti e cromie calde. I volti rappresentati si confondono, diventando quasi eterei, impalpabili in contrasto con il ferro acuminato che fa da violento spartiacque tra il desiderio e la possibilità.

Due testi commissionati per l’occasione, accompagnano la visita a Limen: Monica Mazzolini, storica dell’arte e storica della fotografia, ha scritto su Abitare, il ciclo fotografico di Silvia Sanna esposto al Cavò, Giada Caliendo, giornalista e critica, ha scritto dei lavori di Deborah Napolitano e di Vincenzo Ruocco esposti da EContemporary.

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