LOBODILATTICE

// Focus on artist // L’universo archetipico tra classicismo estetico e neo-pop nelle visioni plastico-pittoriche di Uccio Biondi

La riflessione esistenziale, rappresentata attraverso simbologie archetipiche dell’inconscio collettivo attraverso i linguaggi della pittura, della scultura, dell’installazione e della performance, è alla base della creazione artistica di Uccio Biondi (1946 Ceglie Messapica- Brindisi). Il suo stile icastico costituisce una sintesi originale tra estetica classica e suggestioni neo-pop, generando visioni plastico-pittoriche dal potente impatto scenico che spesso richiamano l’universalità dell’archetipo femminile. Per la rubrica “Focus on Artist”, Lobodilattice ha intervistato Uccio Biondi, esplorando l’essenza della sua ricerca:   

Il tuo percorso artistico risulta caratterizzato, al suo avvio, da influenze espressioniste, sfociate successivamente in ispirazioni informali che ti hanno condotto verso l’elaborazione di una poièsis del tutto peculiare, resa attraverso i linguaggi della pittura, della scultura e dell’installazione intermediale. Quali sono state le tappe più importanti di questo cammino? E quali sono stati gli artisti, se ci sono stati, che hanno lasciato un segno nella tua formazione?

Cosa vuoi che sia vivere e operare in un posto riempito da appena tredicimila anime in inverno per poi diventarne quasi diciottomila in estate!? E’ il paese, signori! Già. Il luogo che ho scelto di abitare, il luogo dell’anima con i suoi silenzi lunghi, inesorabili e profondi che scandiscono il respiro lento della memoria. La miseria della gente del Sud, visibile non soltanto con gli occhi, investe tutto me stesso e va a finire nei miei primi coscienti tentativi pittorici. Rivendicazioni, attese e problema meridionale, tuttora irrisolto, si intravedono nelle mie tele gonfie di segni e colori pastosi. Un mondo popolare ritratto col pugno chiuso e lo stomaco vuoto. Il mio primo espressionismo, che da subito ho chiamato “meridionale”. Non ho badato alla forma, a me interessava il contenuto e mostrare a questa gente che io ero presente e accanto a loro. Tutto ciò aveva il respiro corto nel magma di tendenza del sistema dell’arte. Ho iniziato ad assaporare i tempi e le modalità della ricerca nel momento in cui ho messo piede in Accademia. Bravissimo il mio Mariano, professore di Pittura a Lecce. Ho rivisto e ripensato sia i contenuti che le forme. Mi sono lasciato andare al gesto e alle assonanze degli anni ‘50: uno spettacolo di vitalità artistica e culturale. Da qui la pausa di riflessione. Riprendo dopo circa tre anni col segno di Altamira, ci aggiungo il gesto e mi presento con l’informel su cartoni, tele e materiali vari. Ci cammino sopra ed il mio corpo a corpo risveglia la conoscenza di Vedova e il sentore colorista di Afro, sublimi esempi per questo mio periodo assai tosto. L’artista tutto deve saper fare tranne che fare l’artista. Importanti le mostre di Taranto alla Extra e a Brindisi da Multimedia (1986–1987). Da qui eccomi muratore con la malta. Le mie “Paretimute” sono apprezzate da Luciano Caramel nella mia prima mostra astratto-materica a Firenze, dai Frittelli (1994). La tattilità e la materia non mi colgono impreparato, così il passo è breve. Sceniche e teatrali sono le installazioni sotto forma di scultura che banalmente chiamo “installature”, sorta di “simulacri muliebri” in gesso che trovano ricchezza e si completano con l’aggiunta di video: le installazioni intermediali. Mi pare interessante ricordare “Durch den Kamin”, portata in mostra per la prima volta sul Treno della memoria (2006), a cura di Massimo Guastella e riproposta ultimamente a Carovigno nel Castello Dentice di Frasso. 

Con le “Reincartazioni”, a partire dal 1999, hai introdotto nella tua pittura inserti in carta, stoffa, ma anche pigmenti, carbone, composizioni di scrittura, fino ad arrivare alle più recenti “altopitture”, che introducono nell’elemento materico la terza dimensione. Da dove è nata l’esigenza di queste trasformazioni nel tuo linguaggio pittorico?

La mia non è stata una pittura tout court e non ho mai toccato le corde della retorica, pur rischiando di sfiorarle. Ho invece chiesto a me stesso quale fosse il potere di un pensiero culturale fuori dalle spinte della “facile e immediata tradizione”. Vivere lo spazio della tela o altri supporti nella sostanza contemporanea. Mi sono accorto, e per fortuna in tempo, che le strade da percorrere erano altre. Ho quindi attraversato il repertorio del recupero formale e segnico attraverso materiali “vili”. Completavano e arricchivano il contenuto stesso. Le opere hanno il sapore di un nuovo momento, tra idea e il simil pop. Ho bisogno di sentire il palpito della pittura e la sua tattilità: carte, stoffe riciclate, pigmenti e carbone assumono una determinatezza e si fondono completandosi in un insieme formale. Opere portate in mostra a Matera e a Milano (1999-2000/2001). Dalle “reincartazioni” alle “alto pitture” il passo non è lungo. Tutt’altro. Provo a dare risalto ancora di più alla materia, mi avvalgo così del corpo femminile. E dunque mi lascio prendere dalla terza dimensione, che compio attraverso il gesso in sorte di metope gigantesche completate su tavole e tele (generalmente dittici), senza abbandonare la dimensione pittorica. Segnalo la presenza di una mia prima “altopittura” nella Biennale d’arte contemporanea di Venezia- pad. Italia del 2011, dove fu presentata “ La rivoluzione sono io.1” . La pittura è diventata ora materia visionaria, scenica, imponderabile, rivolta alle tensioni e pulsioni della contemporaneità; si insinua nelle pieghe del tempo presente e si sostanzia di nuove regole, condizioni essenziali per essere altra da se stessa. Non mi sento un pittore rinato, piuttosto un pittore che intravede percorsi di nuova linfa.

Le tue sculture quasi iperrealiste, dominate dalle cromie vivide ed intense, che uniscono la plasticità e il canone classico a suggestioni neo-pop ritraggono corpi femminili, ricalcati da modelle in carne ed ossa. Da dove deriva tua scelta di celebrare l’essere-nel-corpo attraverso l’archetipo del femminile?

Le mie “installature”, ossia installazioni sotto forma di scultura, non sono vere e proprie sculture. Vivono in ambiti formali di terza dimensione fatte di bende gessate (non nascondo di aver guardato con attenzione Segal) con l’aggiunta di materiali poveri su calchi dal vero. Non sono uguali al reale bensì simili al modello. Nel comporre i vari puzzle del calco non trattengo la sembiante vera del corpo ingessato ma la buccia esterna, dove trovo quasi sempre trame di bende inevitabilmente sfilacciate, per poi essere riprese e ottenere il risultato voluto. Non celebro il corpo femminile nella sua perfezione: di esso avverto il sentore contemporaneo, il tentativo di restituire una nuova classicità, forte di pensiero altro. La donna e la sua femminilità vengono raccolte e ridisegnate sotto forma di sculture dinamiche, eccentriche a volte, bagnate dai colori fluo. La carne e la mente coniugano il pensiero da protagonista. E’ come se l’immobilità del gesso profanasse l’involucro e balzando fuori parlasse a tutti: - “io sono qui con i miei difetti e i miei pregi, musa di un’arte al femminile, musa scenica e ventaglio visionario”. Insomma, i miei simulacri sono integratori d’ossigeno che si completano nei dipint,  sino a rendere la quinta scenica un “teatr senza O e senza I”.

Le opere comprese nella tua mostra del 2014, “La Culla delle Albe”, sono ispirate al monologo teatrale “4.48 Psychosis” di Sarah Kane e la tua ricerca artistica comprende da sempre l’ambito teatrale, visto che hai fondato, nel 1982, il collettivo “Teatro della Calce”. Cos’è per te il teatro?

Tutto è “post” di qualcosa, che a sua volta sarà “post” di qualcos’altro. L’arte deve pur servire a qualcosa. Intanto provare a non banalizzare la normalità nascondendoci dietro un dito e non guardare tutto ciò che ruota intorno quotidianamente, la politica e le sue sbiadite professionalità, l’indifferenza, il pressapochismo, il paraculismo, il political correct ad ogni costo, la retorica che punge l’animo nobile ed il potere. Ah, il potere, vergogna dei sognatori! L’arte è coniugazione culturale e, se viene fraintesa, racconta solo bugie. “La Culla delle Albe” è la visionarietà che mi ha posto di fronte al domani, l’esistenza e il suo essere vitale. Alle 4,48, prima di un nuovo giorno, rinasco. L’installazione che parte dai rantoli finali della drammaturgia di Sarah Kane, ormai votata al suicidio, ha il volto visionario, il profilo che supera la realtà e si porta in un luogo “oltre” i confini ed i limiti di noi stessi. Il lavoro intermediale che si avvale di un video d’accompagnamento è stato portato in mostra, brillantemente curata da Massimo Guastella, dapprima a Brindisi al Museo Faldetta e a Roma al Teatroinscatola nel 2017. Composta di una “altopittura” su tavola di grande formato, l’opera risulta di forte impatto scenico per via delle tante presenze che ruotano e che fanno da eco silenzioso; apparenze che aiutano: le maschere. Sono il risultato di calchi di volti femminili presi dal vero, amiche gentili e disponibili che si trasformano in compagne di strada. Fantasmine, guerriere basculanti messe lì a proteggerci dalla solitudine, dai soprusi, dalle tirannie e dai nuovi fascismi. L’ora non sarà mai quella finale, non scoccherà mai e la stessa carne resisterà al pensiero, là sul palcoscenico della vita. In tutto questo ritrovo una congiunzione perfetta con il fare teatro, a volte criptico, corporale e sanguigno, spessissimo visionario. La mia seconda pelle. Il teatro è un colosseo aperto alle fonti energetiche della performance, dove far interagire la molteplicità dei linguaggi: dalla voce alla musica, dalle installazioni alla danza al corpo, agli oggetti. In definitiva qui ritrovo la fonderia delle mie ragioni, del vissuto, dell’imparato, dell’artigianalità, alla quale sono ancora fortemente allacciato.

Nell’installazione “La Rivoluzione sono io.2” hai realizzato la performance “Cabaret Paradisiaco”, dialogando con l’opera di Pino Pascali nella mostra “Obiettivo Mediterraneo”, che si è tenuta nel 2011 al Castello Carlo V di Lecce, mentre nel 2006, con l’opera “Durch den Kamin”, nell’ambito della mostra itinerante “Il Treno della memoria”, hai collegato idealmente un video con tre sculture all’interno di un vagone merci. Qual è la tua opinione sull’opera intermediale e cosa pensi dell’iperrealtà che, come spiegava Baudrillard ne “Il delitto perfetto”, ha “ucciso” il reale attraverso il dominio del mondo virtuale?

Con i nuovi mass media si aprono orizzonti che sovrastano la lettura dell’immagine cosiddetta tradizionale. C’è il mondo dell’invisibile da indagare e da conoscere. E’ un entrare a piedi uniti sulle vicende dell’umanità presa dal vortice quotidiano. Tutto si svuota attraverso la simulazione. Persino la stessa storia dell’arte, presa in contropiede, subisce un colpo mortale . Lo fanno, ignari di dire bugie o verità attraverso varie modalità e tecniche: dalla realtà digitale a quella informatica sino a quella virtuale, per finire nell’immaterialità dell’intelligenza artificiale.

Penso che il quesito posto dall’immateriale nell’arte contemporanea sia prorompente e devastante per certi aspetti, in quanto coinvolge il processo cognitivo di tutti noi, immersi in una bolla di società. Ossia la realtà virtuale rischia di essere parte integrante della nostra esistenza. In tutti i casi trovano terreno fertile, e dunque ciò che succede nella realtà si trasforma molto spesso in mistificazione, con l’artista che subisce pacificamente assecondando i manovratori del business. Salta la poetica legata al pensiero e si introducono nuovi elementi che la modernità accetta. Non “uccisioni” ma solo delitti, a volte suicidi commessi da tutti, compresi quegli artisti che inseguono il filo rosso diventato rosa pallido del giovanilismo digitalizzato e fintamente virtuale a tutti i costi per fini di marketing. A cosa servono per questo, ad esempio, i video imbellettati tra mari e pesciolini e cieli rifatti di farfalline svolazzanti? Come esempio illuminante da imitare e seguire? Per niente. Sono l’espressione della retorica narrativa, della novità affidata a google e ai motori di ricerca. Lo spaccio tecnologico insomma. Dall’altro canto è pur sempre benvenuta la ricerca che lega la scientificità e la tecnologia per la crescita umana e civile. Ma qui toccheremmo altre corde. Fuori dalla finestra mi accorgo che c’è una guerra in atto, ci sono i corpi lasciati mangiare dai pesci in mare, i poveri a migliaia in cerca del caldo nelle notti e un tozzo di pane tolto per decreto. “L’invisibile è ciò che non si vede”, forse Leo Ferrè ha ragione. Troppe voci importanti hanno gridato allo scandalo. Ricordate Pasolini? L’etere e le sue apparenti verità stimolano l’artista, lo pungono, lo ammaliano, lo inondano di immagini e tentazioni virtuali. Ho sempre sentito l’esigenza di confrontarmi con i media del tempo presente, l’ho fatto in punta di piedi e sempre per un raccordo con la mia pittura, perché sostengo che completare un lavoro richiede verità da qualsiasi angolo provenga, senza censure o bavagli. C’è un però. Tocca evitare un certo peccato: la solitudine. Le tantissime ore perdute tra chat e virtualità inebetiscono. Le meta-visioni vanno percepite come sbarco su un nuovo pianeta tutto da decifrare, da interpretare e le opere d’arte devono essere luoghi possibili della riflessione umana che pongono domande su domande. Cosa c’azzecco io con Pino Pascali!? Ho incontrato l’opera dell’artista pugliese per la prima volta tanti anni fa, ma ho pure conosciuto e letto il dejà vu e la forte influenza, spesso ricaduta nel banale, che il polignanese illustre ha esercitato ed esercita tuttora. Stucchevoli omaggi che il reame circolo appioppa alla “nostra” eccellenza. Di fatto io non c’entro per niente ma “Obiettivo Mediterraneo” mi ha disvelato un qualcosa. In quella occasione è stato il pubblico il referente protagonista assoluto e non la mia “installatura”  “La rivoluzione sono io.2”. Un rito iniziatico in cui le donne e misteriosi gomitoli rossi, intese come micce (nulla hanno a che vedere con l’intimità familiare, focolare o altre amenità) si inginocchiano imitando la postura del corpo di donna in gesso genuflessa.

Una preghiera laica ha accompagnato la sequenza performativa in una sorta di cabaret bastardo in cui la scansione di parole antiviolenza, in un grido silenzioso e soffocato, tenta di condurre nel mondo del “divieto”. E qui pongo una domanda lunga quanto il tempo: le micce sono esplose o ancora dovranno esplodere? Ho trovato, in fondo e senza accorgermene, una certa assonanza col mondo di Pino Pascali, costruito sull’ironia e la profondità simbolica.

“La culla e l’alba, luoghi del non detto, del non visto, dell’inascoltato, del non avvenuto”, hai spiegato a proposito delle tematiche affrontate nella tua mostra “La Culla delle Albe”, in cui hai presentato sculture quasi sulfuree di maschere femminili, caratterizzate da cromie fluorescenti e fiammeggianti. I misteriosi gomitoli rossi, sparsi tra le diverse sculture a grandezza naturale, simboleggiano l’insondabilità del linguaggio e l’impossibilità di imbrigliare l’identità in una definizione. In ultima analisi, dalla tua opera emerge una sorta di “memento mori” che diviene un inno alla rinascita. Ci puoi spiegare la genesi di questi concetti che hai sviluppato tua ricerca artistica?

C’è già tantissimo in questa domanda e te ne sono grato. Una sorta di sortilegio, una scaramantica locuzione per risorgere dalle ceneri. Io, araba fenice che accolgo la compagnia dei volti riprodotti dal vero dei calchi issati su sottili assi di ferro basculanti e che riempiono i silenzi, i vuoti, la musica di sottofondo nella quotidianità dello studio. Una ricerca che si modifica e accoglie strada facendo il senso visionario della terza dimensione (senza tralasciare la connotazione del reale). In questo caso un corpo di donna in gesso poggiato su tavola dipinta da strati di tela e materiali terrosi. Accanto, il corpo delle maschere di cui ho già accennato in precedenza. In queste apparenze/fantasmine amo perdermi sino a rendere liquido, ironico e di sostanza l’intera visione. Nel video che accompagna l’installazione c’è un corpo nudo che attraversa il mio luogo di lavoro, quasi fosse un corpo in gesso che si muove e diventa anima sino a confondersi con le maschere, diventando esso stesso maschera. Una messa in scena fortemente pirandelliana nello spirito del “doppio”, ma decisamente “biondiana” nella sua visionarietà.

I tuoi dipinti richiamano, tra artificio e natura, frammenti della memoria che si stagliano nella panica notte della coscienza e della conoscenza, mentre nel video “Bomboniera fragile tic-tac - messaggio sotto forma di scrittura per assolo”, scrivi: “Non è il tempo che mi manca, ma sono io che manco al tempo”. Cos’è per te il tempo?

In questa video- installazione il ticchettio scandisce l’ora dello scatto civile, i momenti di un tempo perso e distacca i vuoti e i pieni quasi appartenessero ad una scultura michelangiolesca e canoviana allo stesso tempo. E il tic tac diventa fragile fragile, tra potenza ironia ed armonia. L’equilibrio perfetto per un messaggio planetario. Di fatto è come se io parlassi il mondo e lo guardassi negli occhi. Non è pretestuosità. E’ una semplice dichiarazione di intenti, che nel video si mostra sotto forma di scrittura e sottotitola la mia immagine in lento movimento.  Il tempo è buio. Buio sul nodo in gola di un bimbo mal nutrito, sulla primavera che dà segno di una terra santa, sul pensiero e sulla pelle diversa dalla tua, sulle intelligenze emarginate e a migliaia bastonate, sulle armi suicide che sputano morte, sul “mater dei” finto stampato sul petto, sui santini della politica caciarona, volgare e inetta. Il tempo è l’alba sovrana che sorride rossastra e benigna tra Giorgio e Matteo (i miei nipoti) che se la ridono a crepapelle. Il domani è qui.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Tre puntini di sospensione... tutti necessariamente legati al domani. C’è qualcosina in circolo, ma non lo dico. Di una cosa sono certo però: continuerò ad essere pittore, perchè la luce mai si disperderà e a tempo perso farò l’artista.

Cosa pensi del sistema dell’arte italiano nell’era postmoderna?

Non è il caso di sfruculiare gli angoli o spigoli della mente. La catenella del sistema ha la ruggine ormai e per fluidificarla non sono per niente sufficienti le aree circoscritte ai vari luna park disseminati ovunque pur di apparire. Ecco dunque iniziative in associazioni- gallerie d’arte, trulli maldestramente recuperati o ristrutturati, palazzi e angoli del territorio aggrediti per esproprio intellettuale e business d’accatto, o addirittura per esibizionismo giovanilista e modernista, scambiati per nuove eccellenze artistico- culturali. Una iattura per l’arte e la cultura. Tutto finzione e accadimento. E’ un proliferare di piastrellismo decorativo e tentativi estivi di pseudo “landartismoambientale”, uniti a iniezioni di fotografie di plastica seriale e finta video-arte, tra farfalle svolazzanti e mari blu, per una natura che sbadiglia e l’ecosistema che s’annoia in attesa di nuove Heidi e le sue caprette. L’arte contemporanea è laterale, giammai pacifica e non c’è spritz che tenga, perché essa stessa dovrà avere già in sé l’anima dell’effervescenza.

“Dentro la miccia con la signora violenza, la terra stravolta nel suo ecosistema” scrivi nel video de “La culla delle albe”. Qual è la tua opinione sulla questione ecologica che diviene sempre più impellente nell’epoca attuale?

La “Provinciartistica” è stata circa trent’anni fa l’antesignana ambientale. Nata a Brindisi ma accolta benevolmente da tutto il territorio, ha realizzato per un po’ di anni sani obiettivi coniugando arte e ambiente. Oggi chi non vorrebbe un mondo pulito ed estraneo da rifiuti o immondezzai!? E’ come la pace nel mondo. Tutti la vorrebbero. Ma poi…?!! Il problema è diventato di portata planetaria e investe ogni cosa ed ogni essere umano. L’ecosistema è in subbuglio ed il potere resta a guardare infischiandosene delle rimostranze che arrivano da ogni angolo del mondo. I giovanissimi sono i primi a sentire il bisogno di un mondo pulito e a misura umana. Ora mi chiedo, sino a che punto si possa accettare ancora la strage degli ulivi, e, come sia ancora possibile morire di cancro per una fabbrica che sputa ossidi velenosi coprendo di vergogna la bellissima città di Taranto?! L’assenza e l’ignavia della “politica” e di un progetto di riqualificazione mi fa stendere un velo di pietà per la rabbia e l’amore per quei bimbi morti lì, ai Tamburi. E’ la storia umana di un disastro ambientale. Ma c’è il turismo. Evviva! Il nostro territorio si bea di essere inclusivo, ospitale con addosso una sostanziale cultura del cibo.

Evviva Evviva! Salvo poi aspettare, finita la vacanza estiva, le puntuali lagnanze dei turisti che per disperazione portano i propri rifiuti nelle loro abitazioni. Ma è così. Si vive alla giornata, tra strade dissestate e viabilità da sistemare. Intanto, a dispetto mio e di tutti, la terra rossa resterà ambrata con dolcezza dal sole accecante e gli scogli del nostro mare, per fortuna, avranno il sorriso delle onde che continueranno ad infrangersi sulle loro punte.

Per Uccio Biondi l’arte è rivoluzionaria?

“ ‘Nca certo” direbbe il grande Camilleri. L’arte, specie quella contemporanea, per essere tale deve essere scorretta. Mi presento: mi chiamo Domenico Uccio Biondi e sono un artista civile. Per comunicare uso tutto ciò che la natura mi dà e i linguaggi che propongo mi seguono a ruota. Tra visioni, banalità e ironia laica, indago sul senso della condizione umana, sullo shock dei malesseri, sulle paure inculcate non soltanto dalle violenze come le guerre ma anche su coloro i quali fomentano, attraverso il potere, mulinelli di paura. A loro una benefica pernacchiona dedico.

 

 

www.ucciobiondi.it