LOBODILATTICE

Il doppio e l'antropomorfo, tre artisti a confronto all'istituto Vico di Bologna

Il progetto di Domenico Canino, Vincenzo D’Argenio e Paolo Migliazza per Art City 2024 nasce dall'incontro dei loro diversi linguaggi e dalla discussione sulle rispettive poetiche. Da subito è emerso naturalmente un terreno comune sulle tematiche dell’antropomorfo e del doppio, che dà il titolo all’operazione. A differenza del “Ka" che secondo gli antichi Egizi fa parte della personalità umana e definisce approssimativamente l'elemento che assicura l'esistenza e la vita a dei e uomini, il termine tedesco è composto dalle parole "doppel" ovvero "doppio" e "Gänger", "che va, che passa" e si riferisce a qualsiasi doppio o sosia di una persona.
Rispecchiarsi nel proprio lavoro per i tre artisti in mostra ha a che fare con l’intrusione divina nel processo della creazione. Le teorie psicanalitiche pongono infatti l’artista in una duplice veste: una in cui egli compete con la divinità, l’altra in cui ne è strumento; a volte è una divina presenza a dirigere la creazione, altre volte si tratta di un demone persecutore di natura maligna.

Esplorare il tema del doppio poteva rivelarsi un’esperienza claustrofobica, paranoica. Chiusa nella riflessione intorno alla identitá ed il suo riflesso, o il suo lato nascosto. Doppelgänger ci da invece la possibilità di uscire da questa visione unica attraverso il contatto con la molteplicità di linguaggi in mostra, propria dei tre artisti ognuno con il proprio gesto: pittura, scultura, installazione. Già da questa molteplicità, non sovrapponibile, della cifra artistica di ognuno, ho inteso esplorare il tema proposto ragionando sull’alterità. Ho coniugato il tema del doppio alla riflessione filosofica utilizzando le categorie di pensiero del filosofo E. Lévinas (L’altro e il Medesimo, L’eventuale, la soggettività come Ostaggio, la responsabilità, ecc...) ed ho adottato il suo contribu- to rielaborato nel saggio “L’inquietudine dell’altro” (Guido Bianchini - 2017, Inschibboleth) come ispirazione al commento delle opere in mostra.

Domenico Canino
“che si esaurisce come emorragia, che denuda fino all’aspetto che assume la propria nudità che espone la pro- pria esposizione stessa” vulnerabilità e dolenza, nella pittura di DC è come se emergessero come stati di na- tura. L’uso di smalti sintetici come medium e la traccia risultante tra la loro mescolanza conferisce dimensione ed energia alle figurazioni di corpi che nel tratto di Canino si danno in una visione come scarnificata. Dilaniata ed insieme rigenerata. Merito anche della particolare tinta rossastra che l’artista ha sperimentato e utilizza, tonalitá sangue ossidato, e la lucidità ottenuta dallo smalto che rimanda alla visione vivida delle fibre muscolari di cui un corpo si compone. Uno sguardo sottopelle, oltre la rassicurante ed omogenea superficie dell’identità, per arrivare fino alla carne viva dell’alterità. “Bisogna scalzare l’idea che conoscere equivalga ad impossessarsi dell’essere fino a ridurlo a niente, neutralizzando in tal modo la sua costitutiva alterità. [...] è soltanto un tentativo di ridurre la distanza tra sé e l’Altro per garantire l’autosufficienza del Medesimo, la sua identificazione”.

Paolo Migliazza
Le sculture di PM ci riportano a “la dimensione creaturale dell’esistenza [...]” sanno di mani che lavorano e mo- dellano corpi e parti di esso. Corpi, busti di individui fermi in un preciso momento dell’esistenza, il più suscetti- bile, il meno quantificabile, come un passaggio di luce: il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Quel trapasso che “attesta la torsione e la tensione del rapporto tra il Medesimo e L’Altro all’interno della soggettività, il fatto che il Medesimo ha a che fare con L’Altro prima ancora che esso appaia come contenuto di coscienza”. I suoi busti di adolescenti fissano la visione dell’individuo nel momento privilegiato della creazione della soggettività, in quanto non ancora compiuto dell’adultitá che è somigliante al Medesimo e fissitá ; quel preciso periodo di vita che è la giovinezza si fa nelle sculture di Paolo metafora di una etica di ricerca, di relazione, di creazione della propria individualitá. “La verità in tale prospettiva di ricerca è eventuale, cioè legata all’evento, all’inquie- tudine che esso stesso solleva e attesta. La verità non si mostra o semplicemente si dà, ma avviene, si rivela in quanto eccezione, cioè nel suo eccedere ogni tentativo di appropriazione da parte del soggetto. Il Medesimo non ritrova idealisticamente se stesso, né tantomeno si mostra nella sua totalità. Esso vive nello sfasamento dell’istante, nel sorprendente scarto dell’identico a se stesso”. La giovinezza diventa così simulacro di continua rigenerazione e della necessità di esporre e proteggere la nostra dimensione ‘creaturale’.

Vincenzo D’Argenio
L’installazione di VD é archeologia esistenziale dell’esistente. È oggetto, testimonianza e risignificazione dell’e- sperienza. É sensibilità umana, verso sé e verso l’altro, che si manifesta in composizione artistica come gesto scelto di investitura a simbolo e dono di significato. “la significanza della sensibilità, l’un per l’altro è significanza pre-originale donatrice di ogni senso perché donatrice; non perché pre-originale essa sarebbe più originale dell’origine ma perché la diacronia della sensibilità, che non si raccoglie in presenza della rappresentazione, si riferisce ad un passato irrecusabile ed è intrigo che non si subordina alle peripezie della rappresentazione e del sapere all’apertura sulle immagini o a uno scambio di informazioni”. Una cintura bianca da karateka, foto d’infanzia ed il footage di una video-intervista dell’artista ad Eugenio, suo cugino. Un girato in cui Eugenio, qua- si come un ostaggio, ripercorre tratti della sua esperienza guidato da un canovaccio di domande prestabilite. Processato. Ed unito al suo carceriere dalla condivisione della stessa appartenenza, non già familiare quanto esperienziale, dell’aver appreso le basi dell’arte marziale, della difesa e del combattimento di fronte allo stesso “nemico invisibile “. “Il tentativo messo in atto è di pensare L’umano come trascendenza e iperbole, come capa- cità di non convivere semplicemente con l’altro, ma di aprirsi totalmente, di sentirsi nella sua pelle, sostituendo alla rigidità del soggetto chiuso in se stesso la completa esposizione e vulnerabilità dell’ostaggio”. Esposizione e vulnerabilità che è anche avvertire su di sé il vissuto dall’altro, di perfezionare le mosse come l’esecuzione dei kata sul dojo della vita. Di immergersi nel flusso di esperienza dell’altro, come chi ne reinterpreta i gesti, e di prepararsi all’affronto con l’alterità dell’esperienza-vita non ancora manifesta ma presente in forma di ricordo o presagio. “l’apertura originaria all’alterità, alla trascendenza anteriore ad ogni rappresentazione, è ciò che permette il fatto che la prossimitá dell’Altro non urti solamente la soggettività in una sorta di traumatismo fine a se stesso, ma la elevi nel momento stesso di prenderla in ostaggio, la collochi nella prospettiva della respon- sabilità. Il concetto di soggettività come ostaggio sovverte completamente l’idea dell’Io come auto-posizione e compiacimento, depone il conatus essendi, in favore dell’esposizione all’altro”.

Maria Venditti

Tu hai vinto ed io cedo. Ma tu pure, da questo momento, sei morto - sei morto al Mondo, al Cielo, alla Speranza! In me tu esistevi - e ora, nella mia morte, in questa mia immagine che è la tua, guarda come hai definitivamente assassinato te stesso.
William Wilson, E.A.Poe
Partirei da questa frase finale di Poe, dal pensiero conclusivo, chiarificatore, di una verità mai compresa, negata ed osteggiata fino all’ultimo svelamento.Cos’è dunque che ci spinge al confronto? Confronto tra l’uno e l’altro, tra il sé e l’altro da sé, tra noi e la moltitudine, tra la moltitudine e il singolo? Il mettersi alla prova, il guardarsi allo specchio, la necessità di distinguerci e distinguere, scindere e dividere ciò che siamo da come appariamo ma tra noi e lo specchio, quale verità inseguire? E’ da queste domande, da questo dialogo plurale, a tre voci, che Paolo Migliazza, Vincenzo D’Argenio e Domenico Canino partono per introdurci ad una tematica che affonda la sua origine nella stessa drammatica esistenza umana e che interroga il sé fino alle più remote e sconosciute profondità. L’idea del Doppio è qualcosa che va oltre la conoscenza data, riguarda una parte muta, che porta con se i dubbi più complessi sull’essere e le scelte che quotidianamente gli attribuiamo.
Tre definizioni chiave legate indissolubilmente al “Doppio” mi paiono emergere dal lavoro presentato dai tre artisti (tre per innescare anche una ludica interscambiabilità) e sono OMBRA, SOSIA e RIFLESSO. In tutti e tre questi casi abbiamo a che fare con qualcosa di personale e come tale di conosciuto ma, nello stesso tempo, di altro, l’amico più crudele con cui un essere umano possa mai trovarsi a dover fare i conti, ovvero “se stesso”. Ombra come proiezione di sé, visibile in quanto opposta ed in antitesi alla luce, eppure, mai realmente scindi- bile dall’essere, attaccata a quel punto infinitesimale che sugella un patto non scritto tra il corpo e il suo limite, soglia tra il reale e l’intangibile. Affrontare l’oscurità dell’animo umano passa anche dall’osservare la propria ombra, osservarne i contorni mai uguali, cangiati ad ogni visione, eppure è proprionella sua inseparabilità, tra ombra e corpo, che l’identità si manifesta, diventando quasi un monito: “io sarò finché la mia ombra sarà”. Sosia come il sé e il suo doppio, uno diventa due, somigliante eppure estraneo, il sé e l’altro da sé, mai ve- ramente sovrapponibili, mai veramente scindibili. L’uomo è fondamentalmente doppio, un vivente capace di essere costantemente altro da ciò che è, unico in grado di arrivare all’estrema conseguenza della negazione di sé. Ciò che percepiamo nel sosia è la nostra natura al di fuori di noi, duplicazione che ci porta a confrontarci, ad interrogarci sul significato del nostro esserci, punto di partenza per l’esplorazione dei nostri mondi interiori e per renderci complici della nostra salvezza.
Riflesso inteso come restituzione di una immagine (o in modo più giusto “corpo luminoso”) attraverso l’osser- vazione di una superficie specchiante. Sguardo disincantato, dove l’apparenza non inganna, lo specchio ci obbliga ad un confronto con il sè ma è anche luogo di proiezione simbolica, nella riflessione, infatti, avviene il ribaltamento dell’immagine, assistiamo alla visione identica ed allo stesso tempo contraria. Con fare di Narciso scrutiamo il riflesso come sfera di cristallo, alla
costante ricerca di un riscontro in grado di definire la nostra identità.
Nella notte dei tempi l’uomo insegue la sua ombra, diventa impronta di mano nella caverna, narcisismo prima- rio di bambino, esorcizzazione e talismano. Il mondo cambia ma l’uomo rimane nel profondo fulcro ed epicen- tro delle medesime paure, dei dubbi e delle dicotomie insite nel proprio animo. Paolo, Vincenzo e Domenico, ognuno a suo modo, indagano questi tre termini introiettandoli e restituendoci una visione “speculare”, un “doppio” possibile ed in esso una via per comprendersi e comprenderci.

Domeniico Grenci