La poiesis, che scaturisce da un profondo rapporto con la materia, in particolare con il vetro e le sue trasparenze, il legame con le proprie radici identitarie, ovvero con la cultura salentina, l’oggetto di design concepito come “idea d’arte”, costituiscono il fulcro tematico che caratterizza la ricerca di Teresa Vella. Già allieva di Bruno Munari e Rodolfo Bonetto, e da lungo tempo designer per importanti aziende a livello nazionale ed internazionale, l’artista originaria di Maglie e con un nutrito background di studio e lavoro a Milano realizza - attraverso i linguaggi espressivi del design e dell’industrial design - vere e proprie creazioni artistiche, che colpiscono per le ricercate cromie e per la sinuosità e l'equilibrio delle forme. Ma la sua sperimentazione spazia anche attraverso gli ambiti della pittura, dell’installazione ambientale, della scultura e della poesia. Per la rubrica “Focus on artist”, Lobodilattice ha intervistato Teresa Vella, alla scoperta del suo universo artistico.
Per quanto riguarda la tua formazione, negli anni ’80, al corso di “car design” di Rodolfo Bonetto, hai conosciuto Pierre Restany, e hai collaborato anche con Bruno Munari, ai laboratori organizzati al Civico Museo di Storia Naturale di Milano. In più, da piccola, hai spesso osservato la lavorazione del legno nella bottega di tuo nonno. Quali sono stati i tuoi punti di riferimento, i maestri che hanno influenzato il tuo percorso artistico?
La bottega di mio nonno era adiacente alla casa in cui sono nata, perciò sin da bambina ho avuto un naturale approccio col lavoro del legno, ma anche agevole familiarità con quei progetti che nonno Giuseppe eseguiva su grandissimi fogli biancastri, prima di dar corso alla lavorazione. I suoi mobili intagliati, le grandi e piccole pitture, i calchi in gesso, arredavano la casa dei nonni, dei parenti, degli amici e dei clienti che venivano spesso in bottega ad osservare come nasceva ogni cosa sotto le sgorbie del maestro Vella. Non avevo ancora otto anni quando la sera lo accompagnavo nella piazza di Maglie. Camminando, mi parlava di grandi artisti, come Michelangelo e Raffaello. La mia curiosità e le mie domande lo rendevano orgoglioso ed io ero ancor più felice, sia per me che per lui. In piazza, l’abituale incontro con i suoi più cari amici, tra i quali alcuni noti intellettuali del tempo, spesso impegnati, ricordo, in vivaci discussioni culturali, sociali e politiche in cui tutte le opinioni trovavano confronto. Il premio per la mia pazienza a quelle riunioni era un gelato o un pasticciotto alla crema. Purtroppo, avevo appena dieci anni quando il nonno ci lasciò per una malattia improvvisa; ma la sua figura e i suoi insegnamenti non tardarono a manifestare la loro influenza. Ero al primo anno di scuola d’arte, quando un giorno mi ritrovai a razzolare per quei laboratori, racimolando un po’ di scarti di lavori in legno. Li assemblai con fili metallici anch’essi d’avanzo, per poi appendere le mie strane improvvisazioni accanto alle finestre. Fu lì che un mio professore di progettazione mi chiese se per caso avessi mai sentito parlare di Bruno Munari. Incuriosita andai nella biblioteca scolastica a scoprire i libri e le opere del grande Munari artista-designer e le sue “macchine inutili”. Sempre lì, trovai alcune pubblicazioni su Mondrian e mi appassionai ad entrambi questi artisti per il loro lavoro sul rigore fondamentale degli equilibri delle forme e del colore. Poi, più avanti, frequentando il DAMS a Bologna, non mi fu difficile prendere un treno e andare a Milano per incontrare Munari nel suo studio. Era una persona affabile ed elegante. Ma nel contempo severo, profondo ed intellettualmente generoso. Dalle cose più semplici traeva grandi idee. Dalle sue parole c’era solo da imparare. Era un Maestro di vita. Il mio trasferimento a Milano mi permise di incontrarlo altre volte e di essere invitata a frequentare un paio di laboratori per i bambini. Munari non amava recarsi a inaugurazioni di mostre. Ma venne alla mia, in via Ciovasso a Milano, facendomi i complimenti per le piccole sculture in carta e alluminio e per i miei nove pannelli appesi al muro, in diverse cromie metalliche, che chiamai “Forme Inattese”, alcune delle quali presentate successivamente in altre mie antologiche. Mi ero già laureata con una tesi di laurea sull’Industrial Design di Rodolfo Bonetto. Era da 30 anni Presidente dell’ADI e dell’ICSID. Grazie a lui frequentai il suo corso di car-design alla Domus Academy di Milanofiori. Capii allora la differenza tra design e industrial design. In quel contesto si affrontava anche la questione delle future city-car per far fronte al crescente problema del traffico e dei parcheggi nei grandi centri urbani. In quelle pause di lavoro conobbi anche Pierre Restany, che successivamente rividi più volte alla ben nota Galleria Manzoni di Milano. Venne a trovarmi nel mio Studio in Ripa Ticinese per vedere i miei primi lavori di grafica e di design. Ci rincontrammo più in là nel tempo nella redazione di D’Ars, dove mi chiese i cataloghi delle mie mostre per poterne scrivere in un suo testo critico. Era in partenza per Parigi e mise tutto in borsa. Dopo poco tempo seppi dai giornali che era venuto a mancare. Oggi so che se il mio primo maestro e riferimento è stato il nonno, che mi ha insegnato il lavoro d’artista e l’umiltà intellettuale, tutto il resto è nato seguendo le parole di persone che stimavo profondamente, e lavorando onestamente su quegli esempi.
La tua ricerca è partita dall’interesse per la grafica e la pittura, per poi svilupparsi attraverso i differenti linguaggi espressivi del design, del design industriale, della scultura, dell’installazione ambientale. Com’è avvenuto questo passaggio?
Anche qui il passaggio è stato quasi naturale. Al primo anno di scuola d’arte frequentavo la sezione legno con lo studio sull’architettura di interni. La scultura, attraverso le ore di plastica, il design, l’industrial design, progettando sedie o scrivanie che poi realizzavo in piccoli modelli. La manualità per me era fondamentale. Nel doposcuola, a casa, disegnavo e dipingevo per ore e ore. Imparai a lavorare nell’ambito della scenografia. L’idea dello spazio era una prerogativa determinante ai fini della logica abitativa. L’installazione va oltre lo spazio dell’opera stessa. In seguito, iniziando a lavorare, col tempo mi sono ritrovata a creare e ad elaborare uno stile.
Gli oggetti di design da te creati sono costantemente caratterizzati dal vetro, materiale da te prediletto e assimilato, per la trasparenza, all’acqua. Le tue creazioni, alcune delle quali esposte all’Archivio di Stato milanese, come le “poesie sottovetro”, sono inoltre contrassegnate da intense cromie e notevole luminosità. Secondo il critico Donato Valli, poi, le tue opere non sono semplicemente collocate nello spazio, ma “lo abitano”. Negli anni Novanta, inoltre, hai scoperto, alle secolari fornaci di Murano, le tecniche e le potenzialità della lavorazione del vetro, sperimentando, poi, in prima persona questo materiale nell’ambito della tua produzione artistica. Com’è nato questo tuo amore per il vetro?
Si è vero, credo che gli oggetti debbano abitare lo spazio, e lo storico Donato Valli fu particolarmente attento guardando all’evoluzione del mio lavoro. I miei lavori in vetro sono come personaggi in comunicazione tra loro quando “abitano” lo stesso spazio. Mostrano una tensione espressiva che si propaga. Spesso sono progettati in coppia e ciascuno dei due risponde in sintonia complementare all’altro. E, l’insieme degli oggetti compone e riferisce anche l’idea creativa della trasparenza e quella metodologica della materia stessa che si crea durante la lavorazione. Mi sono trovata quasi casualmente a Murano. È stato un colpo di fulmine, anzi, più propriamente, un “colpo di luci”. Nelle fornaci i fuochi sempre accesi, nei cortili luccicanti montagne multicolori di scarti di vetro riciclabili all’infinito. Che meraviglia! Appena potevo correvo a prendere il treno da Milano per Venezia alle 4 del mattino per essere a Murano alle 8 e lavorare col mio primo maestro, Mario Dei Rossi. Il più esperto, il più anziano e il più saggio di quelle generazioni di mastri vetrai. Il tempo di un consulto per decidere i colori del giorno per i miei progetti che appendevo a lato della fornace e subito si cominciava a lavorare. Caldo bruciante. Brevi parole, gesti calibrati, veloci sguardi d’intesa per dare forma al liquido vetro. Poi, la lunga attesa della stabilizzazione termica dei pezzi.
Qual è, a tuo avviso, il confine tra arte e artigianato? E cos’è per te il design?
È l’esperienza ad insegnare i confini. L’arte è unicità. È un pensiero, un’idea che induce sensazioni e stimola emozioni, una filosofia che prende forma. È assoluta libertà. L’arte ti porta ad entrare dentro l'opera. Il design è una disciplina che insegna regole precise e metodi nel campo della comunicazione. Si serve della tecnologia e della scienza. L’artigianato è un metodo di lavoro di grande capacità manuale e di attenzione applicativa. Si serve di mezzi e strumenti anche innovativi, ma ripete un modello già esistente. Ogni artista ha un proprio stile, a volte con una base d’esperienza artigianale, ma ha la permanente responsabilità di non trasformare un’idea d’arte in un oggetto di cattivo gusto. Se invece ciò accade, allora quella non è arte. E a nulla vale battezzarla come provocazione.
Qual è il rapporto tra design, design industriale ed ecologia?
Chi opera nel campo del disegno industriale non può più, alla luce dei fatti, non tenere conto dell’ecologia. Ad esempio: negli anni ‘60 c’è stato il boom della plastica. Sedie, poltrone, stoviglie, giocattoli, contenitori e assemblaggi di ogni genere. Oggi ne paghiamo le conseguenze sull’ambiente e sulla salute. Bisogna continuare a fare ricerca su metodi e tecnologie non invasive per non continuare a danneggiare il pianeta e insieme la società. Il disegno industriale come il design è al servizio dell'uomo. Quindi, bisogna porre estrema attenzione anche a materiali e sostanze da impiegare per realizzare soprattutto oggetti d’uso quotidiano, per non rischiare di nuocere all’utente finale, adulto o bambino che sia. Tutto quello che progettiamo deve ricordarci la funzione che è alla base sia del design che del disegno industriale: migliorare la qualità della vita e aver cura di questo nostro mondo.
Nella mostra “Poesia sottovetro”, hai inserito in piccole ampolle di vetro i versi dei poeti salentini quali Bodini, Nicola De Donno, Salvatore Toma. Cos’è per te la poesia?
La poesia, quando è vera, è forma d’arte. Nasce da emozioni, sentimenti, convinzioni. Il poeta la esprime, il lettore la fa sua. Può farla sua anche un altro artista coniugandola ad un’altra forma d’arte. Purché con finalità reciprocamente sinergica e mai banalmente strumentale. Poco dopo la scoperta del vetro di Murano, ho imparato a lavorare anche il vetro industriale in fusione nei forni piani elettrici, nelle vetrerie della mia città. Occupandomi di consulenza per la realizzazione di spazi espositivi, trovavo interessante utilizzare questo materiale artisticamente fuso, per inserirlo negli arredi fieristici. Ma la cosa a cui miravo era proprio quella di “umanizzare” le vetrate con l’inserimento di poesie, appunto “sottovetro”, affinchè ne ricevessero un’esaltazione, per così dire, “sotto altra luce”. E, dopo alcune letture sui poeti salentini, ho realizzato, per ogni poesia, il rispettivo ritmo attraverso il colore. Ne è scaturita un’unica opera. Sono nate, così, quattro mostre titolate “Poesie Sottovetro”. E le ampolle in vetro di Murano dal titolo “Sospiri di Vita” sono state quasi sempre presenti nelle mie mostre, come simbolo di vita e di speranza. Di solito in numero di sette, come le note musicali.
Nell’ambito della manifestazione “In Land art – transizioni artistiche”, che si è tenuta quest’estate in Salento, hai presentato, a Corigliano d’Otranto, l’installazione ambientale permanente “Memoria e palingenesi”, che simboleggia il senso di smarrimento di fronte alla trasformazione del paesaggio pugliese. Com’è composta l’installazione e qual è stata la sua genesi?
La mia installazione “Memoria e Palingenesi” nasce dopo una lunga riflessione sul paesaggio culturale. L’ho realizzata all’interno del Museo di pietra della Masseria Sant’Angelo di Corigliano d'Otranto. È costituita da un trittico formato da un muretto a secco, uno in carparo e una composizione cilindrica. In particolare, il muretto a secco contiene le radici degli ulivi raccolte altrove e qui selezionate, ricomposte e ricoperte di terra rossa. Protette da rete metallica, queste radici raccontano la storia e preservano la memoria individuale e collettiva. Alcune pietre sono state raccolte in occasione di alcune mie visite in diverse masserie del Salento. Il muretto in carparo, invece, incornicia con la rete metallica tronchi e rami “superstiti”. L’uomo, infatti, è intervenuto estirpandoli con l’intento di risanare per ricostruire. La composizione cilindrica con mattoncini bianchi in pietra leccese simboleggia una visione a 360 gradi, oltre all’importanza dei materiali provenienti dal nostro territorio e utilizzati per una ricostruzione basata su sistemi tecnologici innovativi. Il giovane ulivo piantato nella sua stessa terra d’origine, sotto un cielo aperto e in uno spazio infinito, diviene simbolo di rinascita e di un’identità ritrovata.
Com’è cambiata, secondo la tua opinione, l’arte contemporanea nell’epoca della postmodernità, che Jeremy Rifkin definisce “era dell’accesso”?
Credo che ormai l’arte respiri sempre più attraverso le reti. La comunicazione e la relazione nel campo dell’arte è focalizzata sull’immediatezza e sul controllo totale, basato sulla logica del fornitore cliente. Con Internet l’arte è virtuale, ma in condizione non sempre virtuosa. È la rete che permette di comunicare. Tutti, dunque, possono accedere all’arte. Si è allargata la platea, ma l’accesso al mercato è in mano ad un potere sempre più ristretto.
A tuo avviso, l’arte è rivoluzionaria?
La rivoluzione prima di divenire azione è sempre pensiero. L’arte è concettualmente rivoluzionaria se e finché si basa sulla libera espressione di pensiero dell’artista. L’artista ti porta a vedere e sentire ciò che egli stesso vede e sente. Oggi può godere di una spazialità aumentata grazie al mezzo tecnologico. Dalla capacità di padroneggiare nuovi strumenti ecco nuove possibilità di portare lo spettatore in un’altra dimensione: formale, fattuale o ideale.
Note biografiche
Teresa Vella nasce nel 1959 a Maglie (Le). Si diploma presso l’Istituto d’Arte di Poggiardo (Le) e si Laurea al D.A.M.S. di Bologna con una tesi di Laurea sul lavoro dell’industrial designer Rodolfo Bonetto. Frequenta il corso post-universitario di “car design”, tenuto da Rodolfo Bonetto, alla Domus Academy di Milanofiori, dove conosce Pierre Restany. Dal 1984 si occupa di immagine coordinata, arte e design. Collabora con Bruno Munari nei laboratori organizzati al Civico Museo di Storia Naturale di Milano. Organizza mostre, progetta e supervisiona stand fieristici in Italia e all’estero per note aziende nazionali e internazionali.