Il design come linguaggio espressivo, la sperimentazione nell’ambito della scultura e della pittura, con suggestioni che spaziano dalla Light Art all’astrattismo, l’esperienza come interior designer. Sono queste le caratteristiche principali dell’universo creativo di Daniela Chionna, artist designer pugliese che ha esposto, tra le mostre personali e collettive, in diversi festival e manifestazioni artistiche di livello nazionale, tra le quali “SaloneSatellite”, nell’ambito del “Salone del Mobile” di Milano del 2002, la V Biennale del Libro d’Artista del 2019, “Light Art-Design-Contemporary Art” del 2022, al Nuovo Scavolini Store di Roma, solo per citarne alcune. Per la rubrica “Focus on artist”, Lobodilattice ha intervistato Daniela Chionna, approfondendo gli aspetti fondamentali della sua poetica.
Com’è nato in te l’amore per l’arte e quali sono state le tappe fondamentali della tua formazione?
Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia dove si è sempre coltivata la passione per l’arte. Mia madre era figlia di Raffaele Argentieri, noto scultore e pittore della mia città. Mio padre Luigi, ragazzo già determinato e di talento, lavorò come cartellonista cinematografico e grafico pubblicitario nella Milano degli anni ’50 e in seguito intraprese una carriera imprenditoriale senza mai trascurare la sua passione per la pittura e per il collezionismo.
Negli anni ‘80, nella nostra casa di campagna, si organizzavano sovente delle cene dove si riunivano artisti locali e non, più o meno conosciuti, ma tutti con talento e capacità di argomentazione; un vero simposio animato dalla gioia della condivisione, ma anche dalla divergenza di idee quasi sempre foriere di accese e costruttive conversazioni.
Nella prima adolescenza, sempre grazie a mio padre, ho scoperto le città d’arte e i loro musei, Firenze in particolare. Ricordo l’incontro con Pietro Annigoni, suo amico. Prendevano il caffè in un bar poco distante dallo studio del Maestro, e io ero lì, affascinata dalle parole e dal volto serioso e buono di questo grande artista. Trovarsi poi al cospetto di una sua opera era vertigine pura. Ovviamente, questi sono solo stralci di una memoria ben più ampia e variegata. Questo è l’humus in cui sono cresciuta e per questo ringrazio infinitamente i miei genitori e il loro modo di stare al mondo. Per quel che mi riguarda, avevo le idee chiare. Desideravo fortemente lavorare nel settore del design e dell’arredamento, e volevo farlo presto. Dopo il diploma, conseguito all’Istituto Statale d’Arte di Grottaglie (TA), tradisco le aspettative di mio padre declinando gli studi universitari, scegliendo di partire verso una breve ma appassionante esperienza fiorentina: fare pratica nelle botteghe artigiane situate lungo quella che adesso viene definita la “rive gauche” dell’Arno. Ho imparato molto in quel periodo, vivevo un tempo “anarchico”, e tra un furore giovanile e l’altro mi approcciavo ai rudimenti dell’ebanisteria e del restauro. Nel frattempo realizzavo plastici e tavole grafiche per gli studenti di architettura.
Al mio rientro ebbi la possibilità, con mio fratello architetto, di lavorare nell’azienda di metal design di famiglia. Eravamo già impegnati in diversi progetti e nel frattempo partecipavamo a concorsi: “SUN” di Rimini, “Abitare il Tempo – Verona”, “Young e Design - Milano”, “Progetto Arflex - Milano”. Curavamo contatti con aziende che trattavano contract per interni e in particolar modo per gli esterni, settore dove l’azienda di mio padre dagli anni ‘60 agli anni ‘80 era leader nel Sud Italia. Non rinnego di aver avuto la strada spianata e con gli strumenti già a mia disposizione necessitavo principalmente di specializzazioni o corsi di formazione che mi permettessero di maturare requisiti tecnici per meglio supportare il mio lavoro. Decisi di frequentare il neonato Istituto per l’Arte e il Restauro di Lecce, simile per intenti a quello di Firenze con in più delle sezioni dedicate al mobile e al turismo. Fattore non trascurabile, considerando quello che, a distanza di vent’anni, sarebbe diventato il Salento. Grazie al collegamento con alcuni affermati studi tecnici e imprese edili, ebbi l’occasione di dare inizio al mio lavoro di interior designer, professione che tutt’ora svolgo come freelance.
Sognavo a occhi aperti guardando gli audaci progetti del Gruppo Memphis o dello Studio Alchimia. Alessandro Mendini, Ettore Sottsass, Riccardo Dalisi e altri erano le mie muse ispiratrici. Facevano quello che io volevo fare: fondere il design con l’arte applicata. Concentrai la mia attenzione sul mobile e sul complemento d’arredo, intesi come sculture funzionali: utilizzare l’arte, renderla parte del proprio vissuto, contemplare e usare la bellezza. Il motivo ispiratore era, come lo è tutt’ora, il mondo naturale e i suoi elementi. Forme armoniche e colori primari erano gli ingredienti caratterizzanti. La mia prima collezione prese forma grazie alla collaborazione con un gruppo di valevoli artigiani. Le loro officine erano le mie piccole Bauhaus, e questo mi piaceva molto, mi elettrizzava. La prima tappa fondamentale del mio percorso corrisponde al mio debutto. Fu un’esperienza tra le più significative: il Festival dei due Mondi di Spoleto del 1995, poi è stato un continuo fluire di eventi concatenati, dai quali è difficile stabilire demarcazioni. Sorprendente la sinergia e l’attenzione che mi fu riservata dagli altri artisti, dalla stampa e dallo stesso Gian Carlo Menotti. Il Festival di Spoleto fu il mio trampolino di lancio verso Il Fuorisalone del Mobile di Colonia-Germania e di Milano, patria indiscussa del design.
Milano per me rappresentava uno spazio ampio, il luogo dove interagire, proporre, apprendere, confrontarsi, contaminarsi, esserci e vi sono rimasta per un po’ di tempo, anche se non stabilmente. Tanti sono i ricordi legati ai vari Fuorisalone e alla vivace atmosfera vissuta durante quegli eventi: non capitava tutti i giorni di vedere Alessandro Mendini giocare a ping-pong con Ron Arad su un tavolo disegnato da quest’ultimo, illuminati dalle lampade di Ingo Maurer, o sorseggiare uno spumante, mentre la musica di un dj set animava l’atmosfera di un grande opificio completamente dedito al design d’avanguardia e ritrovarsi vis a vis con Philippe Starck.
Al tempo - era la seconda metà degli anni ’90 - grazie al mio amico Arcangelo Bungaro, ormai punta di diamante nell’ambito del jewelery design, sono entrata a far parte della rosa d’artisti e designer della galleria ABC Milano, proponendo le mie prime opere luminose e non. Mi piaceva tutto di quel posto, completamente dedicato al design autoprodotto, dove puntualmente si organizzavano eventi, spesso frequentati da attenti collezionisti estimatori del pezzo unico. Nel 2002 ho creato Quadri e Contenitori di Luce: strutture polimateriche luminose ispirate all’astrattismo organico e geometrico, progetto selezionato dal Cosmit per il SaloneSatellite 2002, in occasione del Salone Internazionale del Mobile di Milano: un mix tra pittura, scultura e design. Il SaloneSatellite mi condusse a sperimentare orizzonti più ampi. Diverse furono le pubblicazioni su note riviste di settore, lo stesso accadde per le emittenti televisive Rai e Mediaset. In seguito, i Quadri di Luce furono esposti nella Sala Stampa del Pitti Club in occasione del Pitti Immagine – stagione della moda Firenze. Anche il Centro di Produzione Rai 3 di Torino selezionò dei contenitori di luce per il set del programma televisivo “Screensaver”, ideato e condotto da Federico Taddia.
Tempo dopo fu la volta del cinema con il film “Nomi e Cognomi”, prodotto da Draka Production e girato in Puglia, che aveva tra gli interpreti Maria Grazia Cucinotta ed Enrico Lo Verso. Per l’occasione gli scenografi scelsero alcune mie opere luminose e pittoriche, insieme a quelle del poliedrico artista Franco Altobelli. I miei variopinti Corpi di Luce hanno illuminato anche il Chiostro trecentesco di San Paolo, in occasione della IV Biennale d’Arte Contemporanea della città di Ferrara, suggestivo evento patrocinato dalla Regione Emilia Romagna, dal Comune di Ferrara e dalla Fondazione CARIFE. Diverse sono le mostre personali in Puglia e tutte con lo stesso titolo: “l’Ombra della Luce”. E’ evidente il mio legame “antico” con l’opera magnifica del cantautore siciliano Franco Battiato. Nel 2014, con la scultura luminosa “Odisseo”, ho avuto l’onore di ricevere il terzo premio nell’ambito della Biennale d’Arte Contemporanea Rocco Dicillo - IX edizione ( Biennale istituita per ricordare l’agente di P.S. caduto nell’attentato di Capaci), Città di Triggiano – Bari, con l’alto Patrocinio della Presidenza della Repubblica Italiana, il Patrocinio della Regione Puglia, Provincia di Bari, Questura di Bari. Un evento toccante che ha visto la partecipazione di accreditati artisti pugliesi di importanza nazionale.
Qualche anno fa mi colse di sorpresa l’attenzione che mi fu riservata dagli studenti del Politecnico di Milano nel corso di una loro ricerca su alcuni artisti che trattano il tema della luce e fa una certa sensazione ritrovare il proprio nome accanto a quello dei grandi come Chevalier, Marangoni, Spalletti, Corneli e altri ancora. Tante le collettive organizzate da eccellenti curatori in location degne di nota. Ricordo con piacere le belle e suggestive sale di Palazzo de Mari di Gioia del Colle, in provincia di Bari, che accolse, in occasione dell’evento internazionale Apulia Land Art Festival 2016, la video installazione “Come Sopra così sotto e nel mezzo l’acqua”, in cui io e l’artista Gianni De Serio, “fautori del Tutto”, abbiamo giocato con formule, simboli esoterici, elementi, naturalità, colore e luce. Un lavoro straordinario che ha richiesto grande impegno e studio. In contemporanea, nel cortile dello stesso palazzo, vi era un video di Studio Azzurro. Piccole soddisfazioni.
Un guizzo della mia luce è passato anche per il PAN, Palazzo delle Arti di Napoli, grazie a un evento a cura dell’associazione nazionale di notariato. Anche un mio “Cubo d’Artista” fa parte della collezione permanente del MAAM Museo dell’Altro e dell’Altrove di “Metropoliz città Meticcia” di Roma, location sbalorditiva e unica nel suo genere. La Light Art mi ha permesso di percorrere un lungo sentiero, oserei dire luminoso, con la tappa più recente, nel 2022, al Nuovo Scavolini Store, palazzo storico in Piazza Venezia a Roma. Per l’occasione, il design autoprodotto e quello industriale di un’importante azienda italiana hanno colloquiato in perfetta armonia e fusione. Nel 2013 lascio libero spazio alla pittura. Prima fogli di carta, poi tele e supporti lignei oversize e, nel 2014, tre grandi opere circolari diventano scenografia del palco principale dello Jonio Jazz di Faggiano (TA): quasi un preludio di quello che sarebbe stato il mio futuro rapporto artistico con la musica. “Arte Padova 2018” rappresenta il vero start del mio - tutto sommato - recente percorso pittorico. Grandi pannelli materici quasi monocolore e di grande impatto; un lavoro di sintesi, giocato sui toni cangianti del blu, tentativo apprezzato da alcuni collezionisti e in particolar modo da un curatore giapponese che al tempo selezionò un’opera per un’expo a Osaka.
Grazie all’invito di AIAPI, Associazione internazionale arti plastiche Italia, Comitato Nazionale Unesco, ho partecipato a due rassegne d’arte contemporanea a favore dei diritti umani nella suggestiva cornice della Fondazione Campana dei Caduti di Rovereto. L’esperienza più bella che si possa fare in ambito creativo è quella di confrontarsi con artisti provenienti da ogni angolo del mondo: ci si rende conto di quanto la diversità sia arricchente e di quanto l’idea di arte contemporanea sia flessibile a seconda dell’appartenenza a un luogo.
Dal 2017 al 2021 ho lavorato intensamente sul rapporto tra arte e musica, infatti molte delle opere realizzate in questo arco di tempo portano il titolo di “Esperienza Musicale”. Tra le tante seduzioni che il mondo dell’arte esercita, ho subito anche il fascino del piccolo formato. Nel 2019 espongo il mio primo Libro d’Artista in occasione della V Biennale del Libro d’Artista, in una location di rara bellezza: il Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore a Napoli. Un evento a cura di Giovanna Donnarumma e Gennaro Ippolito con il patrocinio della città di Napoli. Non immaginavo che un’opera così singolare come un libro d’artista potesse avere così tanti estimatori, forse per il rapporto sensoriale che crea con il suo fruitore. E’ appagante avere tra le mani un opera d’arte dove solitamente ti viene intimato di non toccare. Il mio primo libro è stato molto design e, seguendo la lezione di Munari, illeggibile: nessuna parola. Ho preferito una comunicazione non verbale. Oggi, il mio Dizionario Ermetico, grazie a Calogero Barba - docente presso l’Accademia di Belle Arti di Agrigento - fa parte della Collezione dell’Archivio di Comunicazione Visiva e libri d’Artista di San Cataldo, in provincia di Caltanissetta. Sempre con un Libro d’Artista ho esposto nelle sale del Museo del Mar, ad Alicante, in Spagna, nell’ambito di una collettiva di rara bellezza dedicata al Mediterraneo.
La tappa più recente tocca la Fortezza da Basso, in occasione della XIV Florence Biennale d’Arte contemporanea e Design; un evento davvero straordinario con all’interno due mostre importanti dedicate al regista e fotografo d’arte David LaChapelle e all’architetto Santiago Calatrava. Per l’occasione, ho esposto due grandi tele appartenenti al ciclo “Altri Paesaggi”.
Queste sono solo alcune delle tappe del mio percorso, rimane un po’ difficile riassumere e fare una sintesi di questi ultimi trent’anni di lavoro, ma, so di certo che se mi guardo indietro provo un grande e profondo senso di gratitudine.
A quali artisti ti sei ispirata lungo il tuo percorso creativo?
Se parliamo del design mi sono sicuramente ispirata agli architetti-designer che hanno fatto storia, in particolare al Gruppo Memphis, allo Studio Alchimia. Ero completamente catturata, e lo sono tutt’ora, dalla loro filosofia e dalla loro forma espressiva: penso alla libreria Casablanca di Ettore Sottsass o alla Poltrona Proust di Alessandro Mendini.
Per quanto riguarda la Light Art, i miei “Quadri e Contenitori di Luce” sono di chiara ispirazione astrattista. Mario Radice, Hans Arp ed Enrico Prampolini mi hanno ispirato molto, ma non solo loro. Poi ho preferito forme più libere e qualche incursione nella Pop Art. Dal 2013 ho dato libero spazio alla pittura, in verità me ne sono sempre interessata e, se pur in maniera marginale o complementare al design, l’ho sempre praticata. Premetto che amo tutta la pittura, partendo dai graffiti preistorici ai giorni nostri. Ovviamente ho delle preferenze: Burri, Rothko, Spalletti, Carrol, Olivieri, Pinelli, Licini, Stael, Klein, Paladino, Guerzoni, Nunzio, Casorati … è una lista lunghissima! Ho subito e subisco perpetuamente il fascino di molti artisti dei quali ho visitato studi, mostre, fondazioni e divorato particolari di ogni opera. Per quanto possa sembrare ingenuo e poco intellettuale traggo molta ispirazione dal mondo naturale. Un sasso, un arbusto, tutto il creato e il cosmo che lo avvolge mi ispira e, nella mia ricerca, a loro dedico tempo e attenzione.
A tuo avviso, qual è il confine tra arte e design?
E’ un confine sottilissimo denominato funzione. Per alcuni il confine funzione è un alto muro invalicabile, per altri è solo un’ipotetica e sbiadita traccia di divisione sull’infinito campo della rappresentazione. Per i più avveduti, come per Munari, non è un confine, ma un ponte tra arte e vita. Di certo, contemplare un quadro di Felice Casorati non equivale al prepararsi il caffè in una caffettiera Cupola di Alessi, per quanto disegnata da Aldo Rossi, ma “chi utilizza un oggetto ben progettato sente la presenza di un artista che ha lavorato per lui”.
Hai mai provato ad accomodarti sul Divano Kandissi, Bau-Haus collection di Mendini? E’ come accomodarsi in un dipinto futurista, solo che quando ci sei seduto sopra non puoi vederlo ma diventi un tutt’uno con l’opera. Ecco! L’Arte è bellezza, il Design ti rende bella la vita.
Qualche anno fa, in occasione di “Artissima” a Torino, una galleria esponeva un’interessante collezione di dipinti e nel centro dello stand, sul pavimento, spiccava un verdissimo Pratone, oggetto di disegno industriale progettato nel 1971 dai designer Giorgio Ceretti, Pietro Derossi, Riccardo Rosso e messo in produzione da Gufram. Non dimentichiamo che “Oggetti” di vario genere e funzione occupano il loro meritato posto nei più prestigiosi musei d’arte moderna e contemporanea del mondo. Ad esempio: la scultura più importante di Flaminio Bertoni è la Citroen DS, un’automobile paragonabile per bellezza e potenza avveniristica alla scultura di Umberto Boccioni. Forme uniche della continuità nello spazio. La Ds fu sotto i riflettori della Triennale di Milano, e oggi occupa il suo piedistallo nella collezione permanente del MoMA di New York.
A tal proposito, per alcuni anni, grazie a un estimatore e collezionista Citroen Ds, mi sono occupata di condurre eventi in Puglia organizzati dall’IDèeSse Club e dall’archivio Storico Citroen, legando la bellezza del nostro patrimonio artistico- architettonico all’iconica auto, che più di ogni altra ha rappresentato un periodo di grande splendore nella storia del jet set internazionale. Grazie alla Ds ho avuto modo di colloquiare di design con Alfredo Albertini, giornalista di “Editoriale Domus” e “Quattroruote”. Il mondo del design è vasto, e per certi versi più onesto e vero rispetto a quello dell’arte: un designer non può bleffare, mai.
Ha iniziato, fin dai tuoi esordi ai Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 1995, a creare attraverso il linguaggio del design, innestato a quello scultura e della pittura. Dal 2013, in particolare, la tua ricerca si è spostata maggiormente nell’ambito della pittura. Com’è avvenuto questo passaggio a livello artistico-esistenziale?
Il 2013 è stato un anno funesto fatto di perdite affettive di grande importanza. Pur conducendo un’esistenza apparentemente normale, ero scivolata nel gorgo di una profonda depressione. In quell’occasione ho compreso che, quando non si possono cambiare gli eventi, l’unica via di fuga è quello di cambiare se stessi. Continuavo a lavorare con la Light Art e l’interior design. Ho anche partecipato a diverse mostre, non mi sono mai fermata, ma avevo bisogno di “curarmi” e la pittura è stato il medium che ha meglio soddisfatto la mia necessità. Ho cominciato a lavorare sulle grandi dimensioni, avevo bisogno di spazio, avevo bisogno di riscattare il corpo attraverso il gesto. Dipingere era liberatorio: non dovevo pensare, ero semplicemente lì dov’ero e presente nell’azione. La pittura è stata la mia terapia, la mia guarigione. Dal 2013 a oggi continuo a dipingere. E’ un fluire armonico, appagante. Ho spostato l’attenzione su una dimensione intima e segreta, fortemente contemplativa e, per quanto abusata sia diventata questa frase, ho cercato e continuo a cercare per davvero “L’alba dentro l’imbrunire”. Adesso ho la consapevolezza che tutto quello che accade non è coincidenza e posso garantire che dirlo è facile, quando si tratta della vita degli altri, ma al momento in cui le cose ti accadono, personalmente ci metti un po’ di tempo prima di comprenderle ed accettarle.
Le tue opere pittoriche, come il ciclo di lavori presentati nel 2018 ad Arte Padova, raffigurano paesaggi astratti, “Paesaggi interiori” che corrispondono ad una “celebrazione arcaica del Creato”, espressione delle infinite energie cosmiche che si riflettono in una “cosmogonia interiore”, nell’ottica della dicotomia tra microcosmo e macrocosmo. Com’è nata, in te, questa ispirazione?
Quando volgo lo sguardo sul panorama personale e artistico di questo ultimo decennio mi accorgo della sua luminosità. Ho camminato molto, ho incontrato persone di importanza significativa che mi hanno insegnato a vedere, oltre che a percorrere altre strade. Ho imparato a vivere al margine, e per margine intendo quello spazio non occupato dalla distrazione dei molti, dove la visione d’insieme delle cose è un po’ più chiara. Durante l’estate del 2018 ero un fiume in piena: ho realizzato cicli interi di opere pittoriche, tutte di grandi dimensioni e tutte caratterizzate dall’uso di colori profondi: blu, nero, rosso mattone, solo qualche sprazzo di bianco biacca e foglia oro. Quasi un ciclo di trasmutazione alchemica, e forse lo è stato realmente. Cambiavo dentro.
Il blu e il nero diventano i colori predominanti. “Il nero è l’embrione di tutte le possibilità”, e questa sua qualità meglio rappresenta il non luogo o luogo della creazione, il posto in cui si creano tutte le immagini. Non ero interessata a rappresentare qualcosa, ma a lasciare che, attraverso l’opera, qualcosa si manifestasse. E quel manifestarsi corrispondeva, al mio “sè”, alla mia cosmogonia interiore.
Colore, materia, elementi naturali, gesto, sintesi, contemplazione: un percorso che ha trovato sfogo nelle recenti grandi tele dedicate ai paesaggi interiori, presenti nel catalogo “Altri Paesaggi”. Mai come ora il mio fare arte è principalmente basato sulla relazione che intercorre tra uomo (simbolo in evoluzione), natura e cosmo: un’arcaica e contemporanea celebrazione del creato nella sua totalità. Come sostiene James Hillman: “L’artifex lavora con l’anima nell’anima del mondo”.
La luce e il rapporto con lo spazio assumono un ruolo di fondamentale importanza nelle tue creazioni luminose del 2002, “Quadri e contenitori di Luce”, selezionate nell’ambito del Salone del Mobile di Milano. La tua ricerca comprende, dunque, sperimentazioni nel campo della Light Art. Cosa rappresenta, per te la luce?
Già alla fine degli anni ‘90 ho cominciato ad avvicinarmi alla Light Art e alle sue tante declinazioni creando oggetti luminosi. Ero interessata al rapporto tra materia e luce, in particolare alla capacità di quest’ultima di rendere leggeri e cangianti i differenti tipi di materiali con cui interagisce, cambiandone quasi, se pur apparentemente, le caratteristiche fisiche. Infatti, il progetto “Quadri e Contenitori di luce” nasce non come proposta di oggetti illuminanti, ma come oggetti illuminati dall’interno, capaci di creare atmosfere grazie alla diversità dei materiali di cui sono costituiti, quindi è la luce che consegna l’intera opera a una nuova dimensione.
Con la pittura ho cominciato a considerare la luce una “sostanza occulta”, da estrarre dai colori scuri e profondi, rivalutandola nel suo aspetto simbolico. E’ risaputo che la luce sia simbolo universale della divinità. Lo stesso Turner esclamò: il Sole è Dio! E in quest’ottica, attraverso i miei apparenti abissi pittorici, cerco di creare una spazialità indefinita, per certi versi eterea, velatamente spirituale, quindi luminosa.
Come artista e designer hai da sempre collaborato con scenografi e musicisti. In particolare hai esposto nel 2019 in Giappone, ad Osaka, presentando “Appunti onirici – Dream Notes”, il progetto di arte contemporanea innestato all’improvvisazione musicale, realizzato con i musicisti Pat Battstone e Giorgia Santoro. Com’è nata questa collaborazione?
Ho sempre amato la commistione tra arte e musica, è una maniera per creare mondi. In svariati eventi, le mie opere luminose e non, sono state accompagnate dalla musica dal vivo di eccellenti musicisti jazz, alcuni ormai molto noti. Il progetto “Appunti Onirici – Dream Notes” parte da molto lontano e ha alle spalle una collaborazione produttiva e sui generis con il pianista statunitense Pat Battstone, eccellente improvvisatore e visionario musicista.
“Appunti Onirici” è un ciclo composto da dodici opere realizzate a inchiostro su carta. E’ ispirato a un bosco mitico immerso in un’atmosfera surreale e rarefatta, quasi evanescente. I colori predominanti sono il bianco, il nero, il blu e poche gocce di acceso rosso. Per Pat Battstone quel bosco misterioso e quelle atmosfere erano già immagini presenti nella sua musica, così è nata l’idea di trasformare quelle opere in spartito musicale. Il 2 aprile 2019, nella sala di registrazione del Waveahead Studio di Monopoli, i miei “Appunti Onirici” sono diventati musica grazie all’interpretazione sinergica di un duo davvero straordinario: Pat Battstone al pianoforte e Giorgia Santoro al flauto.
Nasce così “Dream Notes – Appunti Onirici” del 2019, album prodotto dalla celebre casa discografica ed etichetta britannica Leo Records. Dal lavoro discografico al concerto dal vivo il passo è breve, così abbiamo dato inizio a un tour (performance e mostra) che ha toccato varie tappe in Italia: Casa Museo Comi di Lucugnano, in provincia di Lecce, Fondo Verri e Museo Sigismondo Castromediano a Lecce, Conservatorio di Musica Nino Rota a Monopoli, MaMu- Magazzini Musica a Milano, Spazio Giani – Casa Storica a Vailate in provincia di Cremona, un evento, quest’ultimo, a cura di Valentina Gramazio, curatrice del Crema Jazz Art Festival e produttrice di eventi legati alla promozione della cultura della musica jazz. Dopo l’intermezzo Covid, nel 2021 il nostro progetto ha sorvolato l’Atlantico facendo tappa negli storici jazz club americani: Schwartz’s Point Jazz & Acustic Club a Cincinnati, The Lilypad a Cambridge, ex-Mudd Club a Manhattan, New York, luogo dalla straordinaria memoria, scena indiscussa della musica underground e della controcultura della città, punto d’incontro di artisti e musicisti tra i quali Andy Warhol e David Bowie. Un’esperienza indimenticabile in cui la realtà ha superato la fantasia. “Dream Notes – Appunti Onirici” del 2019 ha avuto molto successo grazie all’interesse di critici musicali e ai loro articoli su riviste di settore on line negli Stati Uniti e in Europa. Oltre alla copertina, l’intero ciclo “Appunti Onirici” è contenuto nel booklet del CD.
Il lungo soggiorno negli Stati Uniti ha visto nascere un altro lavoro discografico degno di nota: “The Last Taxi-Departure” (con Pat Battstone al pianoforte, Giorgia Santoro al flauto, Chris Rathbun al contrabasso, Robert Rivera al violoncello), registrato negli studi di Windows Studio di Brookline e prodotto sempre dall’etichetta Leo Records. Ancora una volta, la copertina è un mio dipinto, ispirato ai colori delle foreste autunnali del New England. Quest’opera è stata, in seguito, esposta in occasione della XIV Florence Biennale Arte Contemporanea e Design e pubblicata nel catalogo Giorgio Mondadori.
Hai realizzato, nel 2021, un ciclo di quattro opere pittoriche ispirate al bianco-calce che caratterizza numerosi borghi pugliesi. Ci parli della genesi di questo progetto?
E’ un progetto nato nel 2021, ma meditato da tempo, ed è proprio una riflessione sul tempo, un viaggio nella memoria, che mi ha portato a realizzare quattro grandi tele dal luminoso impatto visivo. “Calce”.
Per quel che mi riguarda, è difficile sottrarsi al fascino dei vecchi muri dei centri storici tinteggiati a calce. La loro epidermide screpolata, abitata da segni e graffi, forma misteriose mappe dove lo sguardo si perde e la mente ritrova un antico racconto che risuona ancora dentro. Quanta storia racconta un vecchio muro, e in merito a questa indagine, mi piace ricordare l’artista Franco Guerzoni e le sue parole: “La parete è come un libro da sfogliare, un viaggio verso l’interno che consente di rintracciare il vissuto, le memorie, i segni e i simboli, tutto ciò che nel corso dei secoli quel frammento di muratura ha raccolto”.
“Calce” è un viaggio cromatico che parte dalle bianche architetture della Valle d’Itria e tocca la costa adriatica con le sue case coloniche dai colori antichi (giallo ocra, celeste cobalto, rosso mattone) che, per quanto sbiaditi dalla salsedine e dalla pioggia, fanno ancora bella mostra di sé. Delle quattro grandi tele, una è dedicata alla lucente scogliera del Salento, è la conclusione del viaggio. Una vertiginosa veduta a strapiombo sul mare, proprio dove l’Adriatico e lo Ionio si incontrano.
Nel 2022, le quattro opere sono state selezionate dal CdA della Nuovarredo s.r.l per essere esposte negli spazi Febal Casa, in occasione dell’evento inaugurale del nuovo Show-Room Nuovarredo Corsico a Milano. Un’occasione per creare un dialogo tra l’arte contemporanea e le grandi aziende d’arredamento made in Italy. L’evento è stato inserito nel programma della quindicesima Giornata del Contemporaneo AMACI.
Per il 2024, “Calce” verrà ospitata da un noto resort della costa adriatica e sarà come tornare a casa.
Qual è il tuo rapporto con la tecnologia che imperversa in ogni ambito della società post mediale, compresa l’arte contemporanea?
La tecnologia mi diverte e al contempo mi spaventa. L’estate scorsa ero a Roma e ho visitato la mostra “Ipotesi Metaverso”, curata da Gabriele Simongini e Serena Tabacchi. Una mostra ben strutturata e di importanza internazionale. In questa occasione ho fatto esperienza della tecnologia legata al mondo dell’arte. Tutto era centrato sulla creazione di nuove dimensioni spaziali ed esistenziali: altalene immersive, filosofia digitale zen, tecno-natura, visori di realtà virtuale, intelligenza artificiale, poesia e suoni generativi.
Ci sono rimasta dentro per quasi due ore: ero ipnotizzata da quelle opere dinamiche, capaci di fagocitare l’osservatore facendolo fluttuare in un mondo illusorio. Ho qualche perplessità su questa lucente e fantascientifica “palestra del futuro” dove si generano nuove visioni. Ho sempre trovato inscindibile il rapporto tra arte e materia ma, con molta probabilità, è proprio l’arte a condurci pian piano a cambiare paradigma, spostando i parametri della creazione verso una materia più sottile e sempre meno tangibile.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Fantasticare sul futuro mi piace molto. Sicuramente ho delle idee da concretizzare, alcuni lavori sono già in cantiere, di solito non amo parlarne prematuramente. Mi piace consegnare la gestazione di ogni progetto futuro a una dimensione mitica abitata dal silenzio. Ma, per l’occasione, qualche notizia me la faccio scappare. Per il 2024 ritorno al contract con alcune opere di design. Per quanto riguarda il mio percorso pittorico premedito un’altra fuga all’estero, ci sono dei buoni presupposti…We will see.
A tuo avviso, l’arte è rivoluzionaria?
L’arte è espressione del pensiero umano, quindi, l’arte è rivoluzionaria solo se a partorirla è un uomo dalla visione rivoluzionaria. Sicuramente l’era tecnologica è già una grande e quasi inquietante rivoluzione di cui ancora ignoriamo, e forse nemmeno intuiamo, la meta. Credo nella ciclicità degli eventi, quindi in un possibile ritorno a una dimensione più umana.